Alessandro Fiore - Bar Apollo

A volte, colto da accessi acuti di nostalgia, ripenso a cosa è stato anni fa il trend internazionale della vaporwave, tardivamente (sai che novità) approdato anche qui da noi nell'Italietta spaghetti e mandolino. In quei momenti mi faccio prendere un po' la mano e arrivo a paragonare quella wave a movimenti come il futurismo, per la quantità di sfere della vita in grado di abbracciare aldilà del mero dato culturale (moda, meme, percezione del tempo, decostruzione del modello consumista). Un apparente paradosso: un richiamo nostalgico e retrospettivo agli anni della nostra infanzia per svecchiare e mettere in discussione i nostri tempi. Non voglio esagerare, ma la sua importanza è ancora oggi quasi insospettabile. L'impressione è che quel trend in Italia, scusate ancora la boutade, sia stato partorito praticamente da un campionamento slowed and reverb di Figli delle Stelle. Oggi magari quei prelievi di arte digitale non si ascoltano più in maniera così integralista nelle varie produzioni, ma quello che si è sicuramente sedimentato è un certo approccio vintage e hypnagogic, le texture synthpop sui ritmi nu-jazz o funky, un sentimento di malinconia retro-futurista. Roba che puoi sentire ancora nei dischi di Marco Castello o dei Nu Genea, per citarne alcuni. E così, approcciandomi a questo nuovo Bar Apollo, mi è impossibile non pensare nei suoni Roland Jupiter dei primi secondi del disco al capolavoro di Alan Sorrenti.

Alessandro Fiore sembra il nome di un cantautore solista (e anche in questo senso i primi minuti del disco potrebbero trarre in inganno), ma in realtà è un collettivo pugliese al suo disco d'esordio. Bar Apollo è un album di polaroid che racconta un coming of age post-moderno, un nastro vhs consumato che proietta ancora il ricordo di sogni e amori idealizzati fino all'auto-distruzione. La passione per le sonorità elettroniche sono il caposaldo dell'itinerario, ma qua e là è ben distinguibile anche la volontà di asciugare le molteplici sovrastrutture in favore di un prodotto che esalti la potenza dei pensieri interiori. È il caso delle melodie morbide e degli arpeggi in divenire dell'opening, che si fregia di uno splendido breakbeat finale tutto synth vaporosi e roboante basso alt-rock. Dispiace un po' che quel riuscito approccio sincretico sia stato in parte accantonato nel resto della setlist. La traiettoria infatti sembra deviare sensibilmente: con Goodthings ci immergiamo già nel city pop nipponico, tra giri di bassi funk e tastiere anni '80; Buonanotte 東京 e Crash Test sono sophisti-pop quasi antologici (il primo sembra avere un retrogusto Ex-Otago, la seconda inventa una sezione acustica che ricorda vagamente Stormi di Iosonouncane); Bee Gees è una ballad dolceamara che fa il verso proprio a quella musica un po' yacht richiamata nel titolo; VHS è il downtempo più malinconico della scaletta con svenevole voce alla Mazzy Star.

Parlare di originalità e innovazione per prodotti di questo tipo è quasi nella maggior parte dei casi come valutare le "rivoluzioni stilistiche" sulla nuova maglia della Sampdoria, anche se, occorre dirlo, Sei l'America quando chiudo gli occhi ha qualcosa che probabilmente mi ha fatto alzare eccessivamente l'asticella delle aspettative. Il resto del disco è musica al servizio del ritmo e in soccorso del mood, un funk melodico (al di sotto di strati elettronici) di lontana ascendenza battistiana. Un piacevole tuffo estivo nell'Adriatico (se quello dei Nu Genea era nel Mediterraneo), un po' presa bene, un po' appocundria. Non è poco per un debutto.