Che rumore fa la generazione Z?

È il 2010, hai 12 anni, sei in macchina con tuo padre. Lui mette allo stereo un vecchio cd dei Killing Joke, parte Love like Blood. Un po' ne rimani stranito, sei abituato ad ascoltare principalmente XXXTentacion e Drake, ma quel momento lo ricorderai diversi anni dopo. Constantine Sedikides, professore di psicologia all'Università di Southampton, dimostrò nel 2021 su Psychology of Music come la musica abbia la potenzialità di sblocccare il ricordo di immagini e sensazioni legate a specifici momenti della nostra vita. Detta così sembra la scoperta dell'acqua calda, ma in molti hanno provato a spiegare attraverso questa teoria l'accostamento da parte della gen Z, con approccio quasi nostalgico, a sonorità come il post-punk, l'alternative o l'hardcore. Si tratterebbe in quei casi di una trasmissione ereditaria, veicolata verosimilmente da genitori o zii e assorbita, anche passivamente, dai figli. Io però, con molta umiltà, aggiungerei un fattore, forse decisivo: le piattaforme di streaming. Quando ero ragazzo (l'ho scritto davvero, aiuto) Spotify ed Apple Music non esistevano, Youtube era pienamente fruibile solo ai privilegiati con un piano di connessione all inclusive, Emule era come andare ciechi a un'orgia, il compagno di banco al liceo nel 90% dei casi ballava la tecktonik. La fonte principale di conoscenza storico-musicale erano ancora principalmente le radio, gestite da relitti del boom economico che, tra un brano di Kesha e Flo Rida, non mancavano di "imporre" le proprie infatuazioni giovanili ormai demodè. Come si sa, ogni imposizione di gusto viene percepita come una limitazione della propria libertà, pertanto non è frequente tra i miei coetanei incontrare ancora oggi hater incendiari di Queen, U2 e Bruce Spingsteen. Il libero accesso senza mediazioni a questa eredità ha invece fatto sì che la gen Z potesse approcciarvisi con atteggiamento meno giudicante e costruire più autonomamente le sue inclinazioni. I risultati di questo fenomeno sono ben visibili ascoltabili nei quattro dischi di cui vi parleremo oggi.
1 | PER ASPERAX - NO

Il primo album dei tarantini Per Asperax è un epitaffio di nichilismo furente. Non è consuetudine trovare oggi nella musica italiana un disco che manifesti una tale omogeneità umorale: "sono un ragazzo scaduto, un pasto scaduto, un prodotto scaduto; il mio interesse cala sempre, un sipario che si apre per dare sfoggio al mio niente, povero me". La coerenza stilistica, sottolineata da un hardcore grezzo e abrasivo, con riff minimalisti e diretti, quasi condensati attorno a un unico suono che accompagna l'intera durata del disco, fanno di No un genuino prodotto della generazione Z, quella della precarietà e dell'instabilità, quella del "non credo in me, non credo in te, non credo in noi". Persino le schitarrate più clean di Mosca e Un giorno che odio conservano un'inquietudine grungy che prelude con una certa preoccupazione a un immaginario morboso e autolesivo. La scrittura è tendente all'ellissi e al visivo, ma riesce quasi sempre ad arrivare ugualmente al punto come (diabolicamente) vorrebbe ("Correre con le forbici in mano fino ad addormentarci"). La sensazione tuttavia in chiusura della setlist, dopo le ben più catchy Casa e Che importa, è che se l'album fosse durato due tracce in più, sarebbe sfociato tranquillamente nell'emo punk più puro. Da ascoltare facendo punchball col muro; non me la sento personalmente di consigliarlo a chi si trova in una condizione di particolare fragilità.
2 | Campa - Loop

Se la generazione Z trova nell'album dei Per Asperax la sua anima più nichilista e sdegnata, un'espressione se vogliamo 'post-adolescenziale', in Loop di Campa ritrova la sua intonazione più gritty e adolescenziale. Già in un altro contributo avevo trattato il diffuso ritorno su scala planetaria delle sonorità pop-punk di inizio '2000, vuoi per nostalgia generazionale o per reazione al piattume mainstream, che in Italia si sta risolvendo in una commistione di ritmi martellanti e melodie congenitamente radio-friendly (Bambole di Pezza, La Sad, Millennial Daze). Nello specifico, Campa recupera il repertorio di band come gli All Time Low per introdurre riffoni di chitarra orecchiabili, batterie incessanti, spunti elettronici e tematiche teen ("Mi porto ancora dentro un bimbo che non è cresciuto mai; Lei non sa più mettermi il sorriso, è solo brava a uccidere emozioni"). Qua e là si intravedono anche momenti di smascheramento ("Mi chiedo ancora cos'è l'amore, chi siamo davvero io e te ora che siamo grandi"), ma nel complesso l'operazione sembra volutamente simulare un back to high school days. Questo tipo di prodotto ha una chiara vocazione da classifica senza pretese sperimentali o di contaminazione, ma al tempo stesso è anche uno sberleffo a certa 'aristocrazia intellettuale' (come quella rappresentata dallo scrivente e dai lettori di questa rivista), ormai caduta "dentro al loop" della critica militante, incapace di apprezzare dischi come questo per quello che sono: mero fun entertainment fine a sè stesso.
3 | Looking for Andromeda - When the Winter's Falling

I suoni degli strumenti sono nitidi, perfettamente bilanciati, talmente luminosi da sembrare quasi artefatti. I brani sono grintosi e non disprezzano qualche tirata di doppio pedale e screziatura elettronica. La foga viene stemperata qua e là con intermezzi di etereo ambient, senza però mai perdere compattezza e sfociare in effetto 'vuoto'. L'alternative metal dell'EP di debutto dei Looking for Andromeda è solido, venato da un'anima sinfonica che rimanda a band come i Within Temptation, Persefone e agli Ad Infinitum di Chapter III. Il tema centrale sono invece i segni del tempo, e in questo senso il cantato pulito e il sound catchy che connotano il genere, trovano ragione d'essere in versi come "Mi riporteresti a ciò che era?" o "Non posso restare incastrata in una fotografia fino a che cadrò in rovina".
4 | backrooms - Sotto Influenza

Un critico musicale newyorkese, Robert Christgau, non gradendo i Sonic Youth, un giorno decise di definire tutte le band rumorose dell'epoca come pigfuck. Oggi questa boutade si è istituzionalizzata in un'etichetta di genere più o meno credibile, senza identificare più quelle band che nei 90s si dilettavano in quei maremagnum approssimativamente chiamati noise rock e post-hardcore. Lo contraddistinguevano sciattezza e abrasività, predominanza di feedback, liriche edgy con bordate di basso post-punk e un'estetica volutamente janky. I backrooms sembrano rispondere a questi requisiti sin dalla decadente immagine di una prua in avaria nella copertina del disco. Le sonorità graffianti e fuzzose, di richiamo a band come i Tunic, sputano fuori un angoscioso ritratto cupo delle brutture del mondo in cui viviamo. Ovviamente tutto è subordinato all'evocatività e le voci, pressochè inintelligibili, vengono praticamente pareggiate alle chitarre, con tanto di armamentario pedalistico per saturarne la distorsione. La finalità del disco è lampante ed è la tanto abusata parola catarsi, intesa come liberazione emotiva da uno stato angoscioso che qui in Sotto Influenza potete toccare direttamente con mano e orecchio. Questo tipo di sonorità si sono sentite in Italia solo a tratti nei dischi degli Uzeda e nel Vile dei Marlene Kuntz.