Ash Code - Synthome
Dicesi Synthome in psicanalisi il collante psichico attraverso cui un individuo tiene insieme la propria identità, il suo mondo interiore e la sua realtà. Il quarto album degli Ash Code è la costruzione di questo concetto strutturante, la trasformazione del "silenzio delle cattedrali in rovina" in architetture sonore: i traumi non si superano, si rielaborano poeticamente. Le coordinate stilistiche di questo percorso non sono neanche appena velate, a partire dalla copertina che nella grafica richiama a gran voce Closer (ormai un topos nella wave dell'ultimo decennio); nell'estetica della band che potremmo definire Murnau cyberpunk o una semplice riedizione dei primi anni '80 berlinesi, fate voi; dal primo secondo di ascolto che subito ti cala nella dark e coldwave più retromaniaca, vorace di suggestioni tra Joy Division, Bauhaus, Cure fino ai nineteens dei Depeche Mode. Una via, per così dire "nostalgica", tentata in Italia da poche altre band: a memoria vi cito solo i Morgana di Contemporaneità e l'ultimo recente lavoro degli Shad Shadows in tono più dance.

La prima sezione della setlist si può intendere come l'album fotografico di un mondo spiritualmente al collasso
"Cattedrali del silenzio costruite sulla ruggine; La verità vuota si staglia solitaria in un mondo limitato; Una visione nella mia mente contro il caos esterno"
In questa raccolta troviamo solo foto strappate e disturbanti: sono i traumi del passato, vissuti come "una cicatrice che ti sei lasciato alle spalle", ma che non guarisce mai. Così la Nostalgia diventa "un crimine" e l'identità si frammenta, impossibilitata a "essere come l'altro" (Synthome). L'approccio al suono di questo grande affresco è di carattere quasi collezionistico e si possono passare in rassegna, brano per brano, come se fosse un museo, tutte le sfumature che dal '79 ai primi anni '90 hanno caratterizzato la scena del gothic sound. Il risultato è una setlist immancabilmente claustrofobica e perturbante tra bassi inesorabili, voci registrate dalla cripta di un maniero diruto, ritmi morbosamente danzerecci per gli ululanti figli della notte e synth che si insinuano nelle orecchie con lo stesso calore delle stalattiti.

Nel giudicare questo Synthome, teniamo sempre a mente il carattere volutamente retrospettivo di certe produzioni che, soprattutto in quest'ultimo torno d'anni, grazie al destro offerto da un contesto di instabilità politica, ansie ecologiche e mode goth di ritorno attraverso Tiktok, hanno ritrovato attenzione e un proprio posto nell'universo "mainstream" - prendendo sempre con le pinze il termine -. E così l'ultimo lavoro dei napoletani Ash Code resta un prodotto di non facile valutazione: se da un lato si distingue per una scrittura brillante, di respiro davvero internazionale e in grado di reggere il confronto con i lavori dei Molchat Doma o dei Selofan; dall'altro mostra il fianco a un'attitudine rievocativa che li allontana da una cifra stilistica peculiare e distintiva (ma molto del tema si deve alle radici stesse della scena, alla ricerca di un sound vagamente atmosferico e soprattutto industriale, non solo nel senso di metallico e alienante). Poi qualcuno però dovrà spiegarmi le motivazioni culturali che hanno portato a una riscoperta così lugubre e vampiresca dell'ex capitale borbonica, se penso solo ai lavori di Geometric Vision, Hana Bi e Stella Diana o alla recente produzione cinematografica. L'andamento delle parabole storiche resterà per sempre un mio cruccio.