Bugonia è una metafora non troppo riuscita

Bugonia è una metafora non troppo riuscita

È davvero difficile provare sincero odio o disprezzo verso i due sequestratori, invasati cospirazionisti, limpidi esponenti dell'underclass bianca americana. Basta il tratteggio a grandi linee del background per empatizzare con l'abiettezza della loro condizione: un padre che non si è mai fatto vivo, abusi sessuali subiti in tenera età, un'istruzione approssimativa, una madre in coma farmacologico al cui stato si vorrebbe disperatamente trovare una spiegazione o un responsabile. Prede predilette degli ambienti complottisti e negazionisti online alla ricerca di nuovi adepti: Teddy (Jesse Plemons) finisce per cascarci con convinta adesione, Don (Aidan Delbis) passivamente e più per affetto verso il cugino, troppo borderline cognitivamente per capire, benchè in minima misura autocosciente (ricorda molto il personaggio di Spaceboy degli Smashing Pumpkins). Quasi si stringe il cuore a vedere il rapporto dei due pseudo-redneck, imbelli e sempliciotti, soli al mondo con l'unico rifugio nell'altro, brainwashati da una paranoica e delirante teoria anti-establishment.

Al "mondo di sopra" appartiene il personaggio di Emma Stone, venerato e impunito CEO di un'azienda farmaceutica che dà da mangiare a mezzo Stato, consapevole della propria influenza. Dietro la facciata di paladina del progressismo sociale e dei diritti sindacali (decisamente più retorica che fatti), cela uno sprezzo palpabile verso il mondo degli emarginati ("non potrai mai battermi, perchè io sono una vincente e tu un perdente"). Non può esserci comunicazione tra le due sfere, solo rancore e sospetto da una parte, cinismo e difesa del privilegio dall'altra. In entrambi i casi anche una buona parte di presunzione nel capire il disagio della controparte:

"Sono laureata anche in psicologia, posso capire cosa ti attanaglia"
"ah sì, la laurea, quella riaffermazione del privilegio sociale" (semicit.)

In Bugonia l'odio sociale si ricollega a un espediente biografico nel personaggio di Teddy: sua madre è stata vittima di un esperimento farmacologico condotto dall'azienda di Emma Stone, ma a causa di una reazione avversa è stata ridotta a uno stato comatoso. L'incidente, assieme all'ostinazione disumana con cui la società ha perseverato nei test su "cavie umane" (o almeno percepiti come tali da Teddy), si intreccia con la disinformazione farneticante dei podcast da lui ascoltati durante le pedalate verso casa. Il proselitismo di questi reietti ha due conseguenze: da un lato la confortante certezza di un colpevole a cui imputare il proprio malessere, dall'altro la rivelazione dell'ovvia entità dei membri di tutti i più importanti CDA americani: chiaramente una stirpe di alieni intenta a programmare l'eliminazione della razza umana.

Il film si trascina così per un'oretta tra situazioni sempre simili tra loro, talvolta anche piuttosto prevedibili, qualche saltuaria citazione colta a Bergman e 8 1/2, e pochi momenti brillanti. Tutto accettabile, per quanto non memorabile e neanche particolarmente divertente, fino a un barzellettisco finale plot twist su cui sarebbe meglio soprassedere, non tanto per evitare spoiler quanto per non costringermi a commentare una chiusura così goffa e forzata. La moraletta finale che si manifesta nell'ultimissimo frame, richiamando lo stesso con cui il film si apre, è la solita vulgata un po' qualunquista riguardo la violenza dell'azione umana sull'ambiente, il suo inconsapevole autolesionismo e riecheggia anche un po' gli slogan edgelord da social come l'imperituro "meritiamo l'estinzione". Un po' più efficace la correlazione tra lavoratori e api: entrambi operai al servizio del sistema, sfruttati e sacrificabili in un conformismo imposto dall'alto. Poi certo, gli alveari sopravviveranno all'apocalisse umana perchè più resilienti e rispettosi della natura, ma chiediamoci quanti di noi umani accetterebbero da subito una riduzione del proprio benessere per la salvaguardia dell'ambiente? Qualche dubbio ce l'ho anche sullo stesso Lanthimos e sull'eventualità di accettare budget più ridotti per la realizzazione dei suoi film in nome di questo ideale.