Built in Obsolescence - Alea

A volte, il primo segno d'intelligenza è riconoscere con umiltà ciò che non si sa. Il sottoscritto, ad esempio, per anni ha condotto una dieta acustica assai appagante, ma molto limitata: shoegaze, noise rock, post rock, post punk, funk, soul, a volte persino indie pop e cantautorato (più spesso di quanto voglia ammettere in realtà). Ma il metal, beh, il metal non era propriamente cosa mia. Non è disamore, ma alcune lacune formatesi in adolescenza si allargano fino a diventare voragini, e allora ci si arrende dicendosi semplicemente "questa roba non è per me". Altre volte però ti capitano sottomano alcuni dischi il cui interesse va oltre i recinti di genere. È il caso del secondo album di questa band da Riccione che, ascoltandone solo il sound e senza una loro precisazione geografica, per il sottoscritto sarebbero tranquillamente potuti provenire da qualche landa nei pressi di Capo Nord. Quello a cui vi troverete davanti quindi oggi non è il classico esercizio di ekphrasis, quanto lo sforzo di un quasi-neofita di comprendere un mondo di cui, pur apprezzandone epidermicamente le caratteristiche, non ne possiede le coordinate.

Alea si apre letteralmente con un'accensione e si viene introdotti dal suono inquietante di un carillon detunato, che filmicamente già rimanda alla narrazione di racconti agghiaccianti e ricordi disturbanti. È, del resto a pensarci bene, anche un correlativo oggettivo dell'obsolescenza programmata che dà il nome alla band: qualcosa di destinato sin dalla nascita a spegnersi in non troppo tempo, proprio come i music box a carica. Una scorta ai testi e mi rendo conto che anche tutta la setlist ha questo fil rouge a dettare il mood: un ciclo di perdita e rinascita attraverso le metafore del fuoco e dell'acqua. Il fuoco come distruzione e rinascita (Æmber, The Sun Shall Fall), "you know what is the best thing? Is to watch it burn"; e l'acqua come adattamento e trasformazione (Shape of Water, Maelstrom), "be like water, trascend the form, become part of the whole and choose your shape". Il senso è: lasciarsi il passato alle spalle è spesso la soluzione, ma il più delle volte è difficile farlo senza star male. In questo senso l'album è molto tooliano, non solo nello stile messo in campo, ma anche nella morale alla radice del disco, intrisa di concetti junghiani e una certa filosofia zen (ma del resto qualche riferimento ai californiani si poteva ravvisare anche graficamente in quell'Æmber, riecheggiante a sua volta Ænima). La band si riconosce nell'atmospheric post-metal, un filone che in Italia pare avere già dei precedenti di un certo calibro. A un ascolto sommario di questi però, i romagnoli non mi sembrano del tutto ascrivibili nè ai magmi sonori senza fondo degli Ufomammut, nè a ritmi tellurici post-hc di gruppi come i Sunpocrisy e neppure ai richiami catacombali dei Lento. L'intento è qui chiaramente cinematico, ma neanche così dilatato e nebuloso come vorrebbe certa tradizione post-rock. E io, che di post-rock e soprattutto space rock ho una certa praticaccia, mi rendo conto che qui siamo oltre qualcosa che voglia semplicemente far divagare i neuroni senza meta nell'etere.

Forse, tra me e me penso, è quindi al prog che bisogna guardare per capire la fonte di quella magica capacità di rendere digeribili anche queste composizioni estese e arzigogolate, facendo leva su un collante emotivo universale. La seconda traccia del disco in questo senso è paradigmatica di un'idea divisa tra due anime, un mood riflessivo e oscuro che alterna growl death alle sofisticatezze atmosferiche alla Tool. La voce non aggredisce più dopo un po', smette di prendere a martellate l'impalcatura sonora e inizia ad adagiarsi. L'impressione è che l'intento sia anche quello di non lasciar intorpidire troppo a lungo l'ascoltatore nella sua minestra. Ecco allora sezioni per sorprendere e riattivare le fibre nervose: le corali finali su blast beat a doppio pedale (Whispers, Adrift) o gli accordoni chill di Shape of Water, quasi invitati dalla voce stessa "non ci sono più argini, l'acqua può straripare", e che sembrano riportare indietro addirittura alle costruzioni dei Genesis. Il canto non è privo di una certa morbosità, soprattutto nella seconda sezione del disco, con apici in Liminal Stasis e Maelstrom, prima di una chiusura-suite che da arpeggi quasi alla Opeth di Damnation (vado di confronti sempre in punta di piedi, vista la limitatezza dei miei riferimenti) si dirama in orchestrali di archi e trombe.

Alla fine della corsa cosa mi rimane, oltre le onde temporalesche che chiudono la setlist e rappresentano noi ascoltatori, ormai liberi da legami imposti, liberi di fluire? Un disco che non somiglia a un mastodonte distruttivo, quanto a un'altalena emotiva, uno sturm und drang, anche se più virato verso corde emotive sentimentali piuttosto che rabbia e furore. In altre parole, malgrado la costruzione narrativa, nessun pezzo tra questi finirebbe verosimilmente in un film di Danny Boyle come i Godspeed You! Black Emperor. Il piazzamento sul mercato, le coordinate storiche che hanno portato a questo lavoro, i vezzi da cui è affetto? A me basta che Alea sia stato un viaggio catartico, persino ben delineato con un inizio, uno svolgimento e una fine. Magari ambizioso e pieno di grandeur, questo forse sì.