Cartoline dallo Spring Attitude 2025

Reduci dalla due giorni dello Spring Attitude, intontiti dall'atmosfera fumigante della terrazza e gongolanti il nostro accredito stampa, abbiamo deciso di prenderci qualche giorno in più per metabolizzare e riflettere su ciò a cui abbiamo assistito. L'affluenza è stata a tratti numericamente straripante e variegata sotto un punto di vista della fauna culturale. La partecipazione emotiva discontinua, ma complessivamente sincera. L'organizzazione complicata, ma apprezzabile. Abbiamo deciso quindi di mettere nero su bianco tutte le nostre impressioni per trovare una chiave di lettura definitiva alla nostra esperienza.
La location: siamo davvero in Italia?

La prima domanda appena entrati: siamo davvero in Italia? La Nuvola, con tutte le difficoltà acustiche di cui renderemo conto qui, si staglia però, almeno da un punto di vista estetico, ampia, avvenieristica e hi tech tra giochi di luce e pannelli mobili. Il meglio che ci si potrebbe aspettare per un evento del genere, se solo la progettazione acustica avesse avuto lo stesso riscontro. Voto complessivo: 8
Coca Puma: bisboccia sul lettino dello psicologo

Il ploom stage era una stanza nera finché non è arrivata lei, cappellino basso fino al naso a nascondere lo sguardo, imperscrutabile sì, sotto l'ombra della visiera, ma già orientato oltre le nuvole. Setta immediatamente la vibe del festival e, armata di voce leggerissima, synth vaporosi e ritmi inesorabilmente oscillanti tra una seduta di ipnoterapia (ottime in questo senso le visuals, le migliori del festival) e il carnevale di Rio, elargisce mine dreampop, trip-hop e jangle come caramelle. Inaspettata anche la presenza scenica, quasi mai legnosa, forse anche fin troppo in self-confidence.
Post Nebbia: tre uomini e una gamba

La psichedelia della band ha più il tono salace dell'auto-analisi che del festoso escapismo dei sensi che si richiederebbe da un festival di questo tipo, rivelandosi in maniera connaturata quasi l'anti-vibe della line up. La performance non è mancata al loro solito, ma martoriata da un balance che, almeno nelle prime file, si sarebbe definito a dir poco scellerato. Nota di merito per la cover di Pop Porno finale, preziosa testimonianza di un bagaglio culturale della band che affonda nell'hipsteria anni '2000. Mancava un po' di confidence sul palco, quello sì, (naturale conseguenza di un altro contesto d'estrazione?) con un'ingessata coreografia limitata a legnosette articolazioni degli arti inferiori.
Giorgio Poi: per me acqua minerale, grazie

Il tempo di salire al block party a sentire Fenoaltea che ci perdiamo l'abbraccio con l'ex compagno di liceo, Luca Marinelli. Una di quelle strette simboliche in grado di riportare governi e popoli alla ragione, di invertire zeitgeist nel segno del valore umano, di ricordarci che poco conta avere una voce gracchiante quasi quanto il Billy Corgan più nasale degli anni '90 se disponi dei migliori sentimenti e dei giusti valori. Ma noi ce lo siamo perso, voltandogli inconsapevolmente le spalle, e abbiamo paura ad attribuire un significato profetico a questa casualità.
La Rappresentante di Lista: governo tecnico

Professionisti, di altro livello e di altro contesto (l'esperienza televisiva deve aver giocato un certo ruolo in questo senso). Uno spettacolo spaccato sul tempo, senza cali di intensità. Non un momento morto, non una sbavatura tecnica, non un passo fuori posto, Veronica Lucchesi che per poco non si lanciava con una liana sul pubblico gorgheggiando note comunque mai fuori scala. Si vibava su tutto, rincorsi ogni secondo dal deja-vu uditivo del "non sapevo fosse loro anche questa". L'apprezzamento personale si ferma però lì, a un centimentro da quel tutto calcolato sul punto di sfociare nella pantomima; a un centimetro da quel "è così triste essere bravi, si finisce per diventare abili".
Apparat: sub-sub-woofer

Scattata la mezzanotte, la pennichella del fonico diventa un atto di autodeterminazione assimilabile in certe culture al rango di legittimità. Non riesco a spiegarmi in altra maniera il mancato intervento in console per quei bassi ormai prossimi ai 14 Hz prodotti dalle balene. La nostra reazione, del resto, è meno sorpresa di quella di Apparat (mani in alto e sguardo imbarazzato come chi si è appena reso conto di aver pestato un merdone) davanti al black out che quel settaggio ha generato. Al netto dell'eq, esibizione molto spenta di Apparat nell'insolita veste di beatmaker da dancefloor, quasi contraddittoria rispetto a quella da ricercatore di elevati soundscapes elettronici con cui è salito agli allori.
Faccianuvola: divorare cultura

Giovanissimo e talentuoso, sale sul palco dopo aver digerito una cena a base di sonorità dei Pop X e liriche dei Generic Animals. Porta con sè un rack di synth e altre diavolerie elettroniche che non saprei elencarvi e poi, l'ovvio che stupisce: il microfono. Molti di questi progetti campionano anche le loro voci, qui invece è tutto cantato sul momento. Persino un temerario tributo finale al maestro Battiato, sempre con la sua (in questo caso mostruosamente simile) voce. Tra erudizione e classe.
Altin Gün: CIVIS Media Prize

Miglior spot per l'integrazione: una band di sei componenti dai Paesi Bassi, tutti di origini turche (come ci raccontano nel backstage) che mescolano psych pop, elettronica e scale arabe, tutte rigorosamente suonate col sitar. Riuscire a scuotere diverse aree della platea con testi non proprio intelleggibili, sia per genere che per lingua, ribadisce ancora una volta che tipo di idioma universale sia la musica.
La Niña: a little bit out of sync

La traiettoria della serata non è esente da ambiguità. La Niña, miglior rivelazione di questi ultimi anni, per chi non la conoscesse (dubito) produce musica inedita richiamando il folklore italiano. Tutto bello: i ritmi sono incalzanti e le orazioni dell'artista sul palco più che condivisibili. Ma a riassumere meglio il tutto ci ha pensato il commento di un tizio nella fila davanti la mia: "siamo passati da un festival di musica elettronica alla notte della taranta". A ripensarci adesso, non me la sento di dargli tutti i torti.
Marco Castello: barotrauma

Il mood non avrebbe avuto la sterzata che ci sarebbe aspettati da lì a poco, anche per la mancata presenza di Dov'è Liana (da mesi out), sostituita da Marco Castello. Altra grande promessa italiana e scelta comprensibile in ottica di richiamo a un pubblico più - passateci il termine - generalista, ma se le voci sono poco scandite e a trainare il tutto sono gli strumenti (peraltro neanche in continuità al live di poco prima), ne viene fuori più un karaoke per i fan presenti, che una vero e proprio tentativo di diversificazione. Che poi come abbiano fatto gli stessi aficionados a riconoscere le canzoni al di fuori della struttura dinamica, è una domanda che ancora mi affligge. Se non altro, Marco sembrava riuscire a svagarsi sul palco col suo ensemble di otto musicisti come nessuno riuscirebbe in saletta prove.
L'Impératrice: against all odds

Al turno dei francesi la platea sembra popolarsi magicamente di vecchi e nuovi papabili usuals di un Circolo degli Artisti (che speriamo riapra presto). Dalle prime due note si intuisce come il loro sound sia compatto e le voci limpide, a sostegno della teoria (da più sponde ritenuta complottarda) del "chi si è portato il proprio fonico si è salvato". Poco prima dell'esibizione ricevo uno di quelli spoiler da far tremare le ginocchia: L'Impératrice è l'unica band a detenere i diritti per One More Time dei Daft Punk. Dapprima incredulo, perseguo la politica dello scetticismo fino alla fine. Poi l'epiphany: il classicone viene riproposto, in maniera peraltro egregia in chiave band. La giusta consolazione al fatto che abbiano escluso i primi dischi dalla scaletta. Dopo quasi cinque anni dall'esordio ci sta, ma è come se il pubblico italiano facesse ancora fatica a seguire la scena europea. Detto sotto voce: difatti è così, solo che non è mai bello ammetterlo.
Planet Opal: less is more

Il power duo elettronico tutto italiano, che già conoscevo dal mio periodo padovano, ha tenuto i BPM con maestria e nelle vibes giuste con la batteria dritta. Però dal vivo, che ha tutto un altro sapore. Avanguardia post-disco che esagera per fare il giro su sè stessa tornando alla base e riscoprendo la sovversività dell'essenziale.
Ellen Allien: non ho più l'età

Ne parlerò a titolo meramente personale: quel sound berlinese hard-techno prima maniera l'abbiamo sentito troppe volte, oppure semplimente non ho più l'età. Certo, Ellen Allien è ormai una reliquia, un manuale storico, di riferimento tecnico per uno stile legato alla scena di Berlino Est. Fare techno e ascoltare Ellen Allien è come fare indie e ascoltare Calcutta. Solo per dire che sì, noi non abbiamo più l'età, ma c'è sempre qualche raver ancora in fissa.

Cosa resta alla fine della giostra quando le luci si spengono e il parco divertimenti lascia la città? Un setup acustico a cui addebiteremo il nostro otorino fra qualche anno, un abbraccio perduto che sostituirà il murales del bacio a Berlino, un sermone in terrazza con l'autotune dimenticato acceso, un'orda zombiesca allocchita da bassi tellurici. Sì, tutto questo, ma anche l'eco silenzioso dei ricordi e la consapevolezza di un'esperienza che ci ha scolpito l'anima in questo breve spazio di vita.