Centrovest emozionale: controstoria del revival italiano

Per il secondo capitolo delle nostre retrospettive abbiamo pensato di restituire una panoramica su quel fenomeno nostrano di revival midwest emo, ribattezzato goliardicamente in una playlist italiana come "Centrovest emozionale". Abbiamo assunto come ristretti limiti temporali il 2014 e il 2019, ossia il periodo immediatamente successivo alla pubblicazione di classici seminali come Ormai dei Fine Before You Came o ai primi dischi dei Gazebo Penguins ed, essenzialmente, il lockdown, a cui sarebbero seguiti diversi cambiamenti, e non solo dal punto di vista della musica live. Con la promessa di dedicare in futuro un intervento alla scena screamo, esclusa da questa rassegna, fiondiamoci nei dischi più significativi di questo lustro.
(2014) Riviera - Riviera

Il capitolo primo dei Riviera nasce inconfondibilmente dalla temperie instillata pochi anni prima in Italia dai Verme: patina rough nelle registrazioni, abrasività delle chitarre e attitudine vagamente Oi! del cantato. In comune le due band hanno persino il feticcio per gli indelebili, quelli con cui i precursori disegnavano sorrisi sulle bocche e che, invece, per i romagnoli rappresentano i segni o i ricordi da cui non è possibile scappare. Non a caso e non a torto, quando si affrontano lavori su questo genere, si parla spesso di frasette da graffitare: pretese di autorialità pari a zero, tono scanzonato al limite del "bettoliero", e pure qualche saggio di tromba qua e là in tributo agli American Football. Tutto vero, eppure, al di sotto di questa sciarada di richiami, il debutto dei Riviera palesa una autenticità del tutto anti-retorica che somiglia a quegli stream of consciousness finali nei film coming of age, quando il protagonista, col suo bagaglio di consapevolezze e alla soglia della post-adolescenza, ripercorre fra sè e sè il suo accidentato percorso di crescita. Un percorso minato dalla costante precarietà, come suggerirebbero peraltro l'intonazione irrimediabilmente instabile nella voce grattata di Vasumini, l'accordatura ricercatamente blanda del rullante o il motociclista in caduta sulla copertina. Una precarietà, nonostante tutto, fondamentale nella vita per non disunirsi: "coi lacci rotti ho fatto un nodo che mi servirà da traccia per il mio ritorno".
(2016) And So Your Life is Ruined - Rivincite

Di lì a poco sarebbe diventata la buzz-word più tatuata da un moltitudine di italiani e presa di mira da altri come Diego Fusaro. Mi riferisco al concetto di resilienza, al tempo forse anche più gettonato di petaloso, ma già presente nel clima culturale del Bel Paese da molto prima, come dimostra questo Rivincite. Il primo, e finora unico, album di questa band riminese, che già dal nome prefigura la verbosità di alcuni suoi epigrammi e l'indole fatalista, è intriso di questo paradigma. Il bisogno delle salite, poesia-manifesto del disco su arpeggi che più post-rock o alla The End sono mero commento sonoro, racconta del dolore post-idealizzazione, ma rappresenta anche un invito a ripartire. Tutto è vissuto, ma mai subìto: il dolore è un'occasione di crescita, di rivincita. Anche qui, un'emotività così programmatica avrebbe rischiato di sortire l'effetto contrario, un risultato ostentativo, ma la coerenza sonora lungo tutta la scaletta e soprattutto la palpabile visceralità di pancia, scevra di intellettualismi o retorica, crea un giusto mix tra forma e contenuto. Non c'è niente di memorabile dal punto di vista tecnico: non vi aspettate stilettate math, tempi composti o esplosioni soniche. Rivincite è l'epitome degli album per outsider da ascoltare nelle serate estive, da soli in cameretta guardando la finestra o in macchina tornando a casa, viaggiando e torturandosi masochisticamente. Un risultato difficile da ottenere senza rischiare di diventare manierati. In questo sì, il disco è a suo modo memorabile.
(2016) Mary in June - Tuffo

Se c'è un nome nella musica italiana degli anni 2000 che sia riuscito a conquistare uno status di icona, è quello di Giorgio Canali, anche solo per aver prodotto alcune delle opere feticcio del nuovo millennio tricolore (Verdena, Le Luci della Centrale Elettrica, Tre Allegri Ragazzi Morti). Non deve stupire, quindi, se nel 2016 con una certa curiosità si parlasse su varie testate dei Mary in June, band romana che, dopo un EP d'esordio nel 2011, era stata adocchiata e portata in studio proprio dal talent scout ex-CCCP e CSI. Tuffo risente ancora, a ragion veduta o d’istinto, del clima culturale impostato in quel periodo dal songwriting di Vasco Brondi. Ci sono, sì, i lamenti urlati alla Fine Before You Came, ma più che indulgere nei malesseri della generazione "nata fallita", quella che attribuiva i suoi fallimenti alla "sfortuna" (per dirla come la band emocore), ci sono anche e soprattutto i riferimenti alla periferia, ai migranti, alla crisi in medio oriente, all'ecologia e al salutismo. Tutte tematiche che sarebbero esplose virulente negli anni successivi, soprattutto presso la Gen Z, e qui affrontate con approccio più suggestivo che di vera e propria militanza. Nessuna stilettata di chitarra, nessun ritmo terremotante, uno scream o una distorsione che possano spingere il disco in territori realmente midwest o core: i paesaggi sonori nel complesso, con mezzi propri e diversi, assorbono molto dalle atmosfere decadenti delle Luci della Centrale Elettrica, proponendo una sorta di cantautorato tra il dimesso e il rivendicativo. Se non proprio emo, di certo emo-tivo.
(2016) Quercia - Non è vero che non ho più l'età

Di tutta la scena, il debutto dei Quercia è quello dal richiamo più adolescenziale ed emotivo, come dichiarato del resto dalla copertina e dallo stesso titolo che battezza l'opera. Il quintetto sardo raccoglie di peso l'eredità statunitense dei Citizen e degli Hotelier con la loro vena nostalgica e graffiante, presentando un album di polaroid che ripercorre occasioni mancate, amori sfumati, difficoltà nel superare il proprio disagio e l'imbarazzo del sentirsi inadeguati o dissociati dal resto del mondo. Un disco per timidi-estroversi insomma, per wallflowers perennemente in disparte alle feste, in cerca di qualcuno in grado di metterli talmente a proprio agio da fargli urlare tutti i propri malesseri e al tempo stesso rassicurarli carezzevolmente. La setlist del disco è esattamente tutta qui: momenti post-hardcore e scream sguaiati che si alternano a chitarrine omeopatiche e ballad acustiche con tanto di coretti armonizzati (al tempo pensavo goliardicamente ai Tazenda, ma solo perchè buggerati dalla medesima provenienza geografica). Che poi sì, adolescenziale, emo, quello che volete, ma "Tu che hai la testa tra le nubi sempre, se piangi fai piovere su chi ha i piedi sempre troppo al suolo e si rovina i piani già da solo come chi non conta i giorni sino al giovedì" non è una barra così scontata come si potrebbe immaginare. Le skills liriche infatti, e non a caso, sarebbero venute definitivamente allo scoperto nel disco successivo.
(2017) Gomma - Toska

Toska è senza dubbio l'opera più artsy e ricercata dell'intero filone. A partire dal titolo che rimanda al vuoto emotivo ridefinito da Vladimir Nabokov, fino all'idea di concepire una setlist che si dispieghi come un racconto di formazione traboccante citazioni letterarie e cinefile (Godard, Lanthimos, Marasca, Murakami), nell'evidente tentativo di elevare il genere verso orizzonti più poetici (o hipster, fate voi). L'operazione resta un po' di superficie, ma la formula funziona e si attaglia sorprendentemente, e anche con una certa magia, alla verdissima età dei quattro. La vocazione splenetica, particolarmente spiccata rispetto ai colleghi ed espressa attraverso arpeggi alla Sunny Day Real Estate, se possibile ancor più sognanti, tiene a freno la foga strumentale che in pochi casi eccede nell'hardcore (sebbene non manchino momenti screamo e outburst emotivi). L'effetto un po' Tumblr viene amplificato dallo spoken word ricorrente, una formula già rodata sin dai tempi dei Van Pelt, ma a cui si provava a conferire in quegli anni una centralità inusitata, se pensiamo anche solo alle parole in libertà dei compagni di etichetta And so your life is ruined. Visto da una certa prospettiva, Toska può esser considerato un primo tentativo italiano di coniugare il midwest emo all'alt rock verdeniano e iscrivendolo, volenti o nolenti, al clima di maledettismo di provincia e (pseudo)-lirismo della quotidianità indie (i quattro aprirono anche diversi concerti a Calcutta) che in quegli anni ancora andava per la maggiore.
(2017) Voina - Alcol, Schifo e Nostalgia

A proposito di emo goes to indie, il secondo disco dei Voina rappresenta per questa tendenza forse il tentativo più spinto mai espresso in quegli anni. Per una corrente musicale come l'emo, storicamente ripiegata su sè stessa e sulla propria interiorità, parlare del benessere a credito degli anni '80, del crollo dei sogni di scalata socio-economica e del rancore verso le vecchie generazioni, un po' faceva storcere il naso, soprattutto se la prospettiva era quella di un rant da bancone del bar senza un vero e proprio bersaglio. Non che la scrittura non avesse la sua qualità, anzi, ma l'operazione nel complesso risultava un po' legnosetta. Non è un caso che a scuotere l'attenzione del pubblico fosse soprattutto un inno per outsider come Ossa, ricolmo di frasette che, più che su Tumbr, si sarebbero potute leggere sui muri di Ponte Milvio ("Sei bella come una piazza in fiamme"; "Vorrei fare un disastro con te"; "Le nostre ossa che sbattono"). E così, alla fine della fiera, probabilmente il passaggio più riuscito e originale della scaletta si rivela quel retrogusto funk nei refrain di Io non ho quel non so che, vagheggiante giovanili reminiscenze fugaziane. Il disco a suo modo ha il merito di "documento storico", fotografando senza troppe diffrazioni la disillusione anti-politica e l'indolenza rassegnata della generazione Y alla soglia di Jobs Act, lavoro precario, ripiegamento della globalizzazione e delle istituzioni europee.
(2017) Marcovaldo - Ripetizioni

Un urlo disperato che risuona, disperdendosi subito nel vuoto e chiede: "Un bicchiere colmo di ghiaccio, frapponilo all'altezza del viso. Ora guardiamoci attraverso, ci riconosceremo?". Ripetizioni, pubblicato per To Lose la Track, è in teoria il secondo e ultimo disco (hanno prodotto solo EP) dei Marcovaldo, quintetto riminese del filone melodico ed estatico dello screamo. Un disco di schegge, che del midwest emo conserva per lo più alcuni fraseggi twinkly di chitarra, delle sonorità bittersweet senza quasi mai sfociare nel luttuoso, ma soprattutto la spiccata emotività. Epigrammi sulla fragilità umana, sulle relazioni spezzate e il perenne conflitto tra speranza e disillusione, declamati sempre a una certa distanza, come se l'autore vivesse in una cella buia distante da tutto, talmente dissociato dal mondo da costringere il riverbero delle sue urla a propagarsi all'infinito ("ho smesso di cercarmi, vi prego non cercatemi più"). Gli arpeggi dolciastri cercano di lenire uno sconforto apparentemente senza fine. Cult lowkey del genere.
(2018) Cucineremo Ciambelle - Fingere di essere ciò che si è

Un volto che ricorda i collage di John Stezaker, composto da scarabocchi e diversi ritagli. Un po' è così, ogni volta che ci approcciamo a una persona finiamo per scorgere in lei dinamiche e caratteristiche che ce ne ricordano altre del passato (il più delle volte, guarda caso, in negativo). E così si vive in questa perenne dualità: persone a cui sentiamo di poter dar fiducia, ma che al tempo stesso inconsciamente ci terrorizzano, come l'immagine qui in copertina, che da un profilo può sembrare realmente umano, da altri ci rievoca invece i ricordi del Vietnam. Allo stesso modo anche i legami sono funi: possono salvarci o strangolarci ("la fune che mi avevi lanciato? ne ho fatto un cappio"). Si parla di questo nel primo disco dei Cucineremo Ciambelle, un'odissea tra rovine interiori, come suggerisce il discorso di Ulisse nella serie Rai che introduce Legami. Il risultato è una setlist di dieci tracce math pop, denso di stilettate alla Delta Sleep e voci di una mielosità che sconsiglio candidamente agli haters del filone emo o indie. Il disco patisce molto la mancanza di un vero cambio di ritmo, conservandosi irriducibile su un esangue registro nebulsamente sentimentale. Un po' un peccato perchè l'incredibile orchestrale di urla, armonici di chitarra e sviolinate melodrammatiche in Entomologo avrebbe meritato una cornice più di supporto.
(2018) Riviera - Contrasto

L'omonimo album d'esordio somigliava a una presa di coscienza, rassegnata sì, ma col sorriso. Non voglio dire scanzonata, ma melan-ironica, come se si riuscisse a superare un trauma passato nel momento stesso in cui gli si dava voce. A quattro anni dal loro esordio molte cose sono cambiate, a partire dalla patina grezza e homemade delle registrazioni, che aveva caratterizzato il loro debutto. Il sound sembra adesso dissipare la nebbia di fumo nella saletta e affinare la definizione degli strumenti, mai così taglienti. Ma a ricevere una decisa sterzata è proprio il mood generale: quell'attitudine sbracatamente accorata da beoni pronti a intonare in coro, boccale in aria, gli anthem del primo disco, qui lascia il posto a un indole più afflitta e contrita. "Ho rimandato il problema a quel giorno in cui è successo tutto ciò che non volevo, lasciando il meglio in disparte per rivederti in un’immagine". Sembra che la voce della coscienza sia tornata sui propri passi a distanza d'anni, pur avendo realizzato in passato quanto "si vede che doveva andar così, ci siamo stretti fino in fondo". A fine corsa, l'impressione è che tutto si sia fatto più generico, dagli arrangiamenti emocore sferzanti senza pungere troppo, al lirismo vezzoso su macerie affettive, tempo che scorre e what if biografici. La qualità tecnica c'è, è pur sempre un disco dei Riviera, ma la combinazione vincente di ingredienti del primo disco qui non c'è più.
(2019) Quercia - Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo

I Quercia, a differenza di band come i Gomma ad esempio, non hanno mai realmente tentato di intraprendere svolte stilistiche che li portassero troppo lontano dal loro passato prossimo, proponendo piuttosto di volta in volta una sorta di "upgrade" di sè stessi. Nel loro secondo capitolo (o primo, non è mai stata chiara la natura del loro fugace esordio) i sardi drammatizzano le timbriche: scompaiono ballad acustiche, arpeggi lenitivi e coretti. La band "rifà le mura", mattonando ogni singolo centimetro del sound, quasi affetti da horror vacui, con chitarroni roboanti e percussioni tarantolate; in luogo della nostalgia presa bene, un malessere strisciante si insinua sin da quel bianco e nero delabrè che borda il relitto d'auto allo sfascio. I guaiti di Fois si protraggono quasi per tutta la durata del disco e cantano di rotture e perdite, di ciò che si era e si è diventati: la nostalgia non riesce più a consolare; dalla post-adolescenza si è passati alla linea d'ombra. Ciò in cui l'album eccelle è la scrittura lirica, davvero notevole anche al di là del contesto emocore ("Tuffarmi nelle tue ansie più scure per capire quanto poco si respira e provare a respirare anche per te mentre l’acqua si fa limpida"), mentre gli arrangiamenti, sulla scia dei Gazebo Penguins, inseguono un'opulenza un po' sensazionalistica. La formula sarebbe stata poi messa a punto nell'album successivo.
(2019) Gomma - Sacrosanto

Tutto deve cambiare affinché tutto resti uguale. I casertani alla prova del sophomore optano per un radicale rebranding: la voce ne guadagna in potenza svestendo il candore teen, ma flettendosi anche in linee melodiche decisamente più monotematiche; gli arpeggi melliflui di Toska cedono il posto a distorsioni ruvide su accordi a cinque dita, abdicando in buona parte alle atmosfere trasognate che lo avevano contraddistinto; il citazionismo précieux si dilegua, il formulario è più immediato e, per certi versi, torvo ("da quando ho i polsi aperti"; "sono un essere minuscolo, un verme solitario"; "come le vostre facce distrutte mi spaccherei. Balordi"). È una setlist apparentemente incattivita, una progressione alla giovane Holden, come se la mestizia degli esordi si fosse tramutata in cinismo e l'innocenza uscisse ferita dall'indifferenza, dal conformismo e da relazioni tossiche. Non poche voci si alzarono a esprimere perplessità sulla svolta (si parlò persino di versioni sbiadite di Verdena e Prozac+), ma la realtà è probabilmente diversa. Sotto la sfilza di note bibliografiche, Toska non aveva vere e proprie velleità autoriali e i Gomma non si sono mai erti ad alfieri di un nuovo modo di fare musica. Il loro fu essenzialmente un alternative a tinte post-core (derivativo ma con buone intuizioni) che, stante la penuria di esponenti nel parterre italiano di prima fascia, portò molti a esaltarli anzitempo e, di riflesso, altri ad aspettarli al varco.