cólgate - ORRIDO

cólgate - ORRIDO

Immaginiamo per un attimo una coppia classe '72 conosciutasi negli anni di università a uno dei concerti più naif dei sottoscala di provincia, a suon di shoegaze, dreampop e del più obliato alternative dell'epoca. Immaginiamo adesso questa stessa coppia 20 anni dopo entrare per mero caso in camera dei loro figli. In sottofondo c'è Mida dei Quercia su Spotify e la madre, un po' per condivisione emotiva un po' per rivalsa generazionale, decide di fargli ascoltare la playlist della sua adolescenza. Focus tracks: Dagger degli Slowdive e Luna degli Smashing Pumpkins. Gli effetti di questo gesto, apparentemente innocuo e fine a sè stesso, si sarebbero riverberati qualche anno dopo e tra i potenziali esiti ci sarebbe potuto tranquillamente essere un album come ORRIDO dei cólgate.

Il debutto della band sandonatese per La Tempesta Dischi sembra dividersi in due sezioni ben distinte: una prima metà molto più incentrata su ballad per lo più acustiche e dall'umore dreamy, e una seconda dove le distorsioni gaze si saturano con più frequenza. La title track di apertura è programmatica in questo senso, col suo strumming svenevole e gli accordi a cinque dita che richiamano in qualche modo anche band come i Cranberries. Gli stati emotivi e le prospettive sfasate narrate nel brano ("Ombre diverse dalle mie, le tue; adesso aspetto, tu invece piangi a dirotto/ non lo vedrai mai come l’ho visto io, aspetterai che poi te lo racconti") sfociano nell'incomunicabilità e nell'orrido, appunto, ma preludono anche al pezzo, a mio avviso, più smagliante della setlist, Asteria. A uscire da quell'intro a base di arpeggi delicati, suoni planetari e cori angelici ci si aspetterebbe la voce gracchiante di Billy Corgan che ti abbozza 1979, invece affiora una limpida voce femminile da restarci imbambolati (sia per il suo effetto mesmerizzante, sia per la somiglianza col timbro vocale di Ilaria dei Gomma).

Il secondo atto del disco spinge apparentemente molto più sui pedali e già nell'attacco dai ritmi più serrati di Piogge intense ci sembra di venir scaraventati sotto al palco degli Slow Crush, salvo rientrare nelle strofe in una più accomodante dimensione ballad. Quasi speculare la struttura in Donnie che, pur strizzando l'occhio nell'incipit e nei chorus a certo emo punk con tanto di controcanti maschili a più voci, non scende a compromessi e fa valere la sua vena ultra-catchy. E così forse, alla fine, la sezione che più ti entra dentro è il finale alla Rocket con tanto di monologo di Nanni Moretti dal celebre La Messa è Finita. L'album chiude con un'altra ballad, stavolta con qualche sonorità curesca e tanti prelievi (presumo con intenti goliardici) a More than a Feeling, fino addirittura a un coro finale che fa platealmente il verso ai Boston. La scrittura non è sempre diretta e univoca, spesso si basa sulla rappresentazione di situazioni anche incongrue ("Niente è più qui, nessuna porta aperta in cui poter entrare, vedere un po’, grattare il fondo, domani fa bel tempo. Tenere in mano la mia testa, sentire cosa non c’è"). In alcuni casi riesce complessivamente a restituire con efficacia una suggestione precisa (orrido, asteria, pioggie intense), in altri, dove questo meccanismo fatica ad arrivare al punto, rischia di diventare un medium estemporaneo senza forza. D'altro canto, i temi affrontati nel disco, laddove più facilmente intuibili, rivelano intenti ambiziosi e neanche così teen come vorrebbero apparire (si legga dietro le righe di chiusa), ma il tono generale che ne emerge è sempre raggiante e woke, pur senza mai scadere nello scanzonato. Forse non il disco più adatto per scatenarsi nella giungla di un parterre, ma congeniale balsamo spirituale post-viaggio della maturità.


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