Paul Thomas Anderson, è forse possibile una satira più telefonata di questa?
Avete presente il cagnolino che, vibrando impaziente in attesa di riconoscimento per aver fatto il suo dovere, riporta la pallina al padrone, pronto a ricevere sulla fronte il buffetto che suggella il tacito patto tra fedeltà e riconoscenza? È questa l'immagine che mi è balzata in mente vedendo questo One Battle After Another, laddove il 55enne Paul Thomas Anderson sta all'obbediente quadrupede e la figura del padrone a una fantomatica figura che non riuscirei a identificare senza sfociare nella più bieca paranoia maccartista, e che per questo definirò molto vagamente come i diktat αγραφοι hollywoodiani. C'è tutto, ma proprio tutto, e l'impressione è che se il film fosse andato avanti per un'altra inutile ventina di minuti, ci sarebbe stato anche di più. C'è un gruppo di rivoluzionari guidati da una donna afroamericana scafata e intraprendente che non abdica al suo ruolo di ribelle davanti alla maternità, delegando i compiti genitoriali al compagno, nel più classico dei ribaltamenti patriarcali. Gli uomini sono in tutti i casi dei grotteschi imbecilli, ad eccezione di un messicano (Benicio del Toro) che nasconde e protegge degli immigrati in casa, e un cacciatore di taglie indiano (Eric Schweig) che si redime salvando la vittima designata (forse) in quanto emarginata etnicamente come lui (?). Farebbe eccezione in teoria anche Di Caprio in versione drugo, il relitto tossicodipendente di una rivoluzione che non c'è mai stata, sebbene sia apparentemente celebrato nel film più per il fatto di (spoiler) aver cresciuto la figlia d'altri che per la sua tragicomica militanza sovversiva.

Gli altri uomini non sono nient'altro che deformi caricature, passando senza soluzione di continuità dal ridicolo militarista tutto chiacchiere e distintivo (uno Sean Penn che parodia vagamente Vince McMahon), razzista ma sessualmente attratto dalla rivoluzionaria afro, ai suprematisti bianchi ai vertici della società che, dietro le loro facce pulite e colletti inamidati, nascondono ciò che più di marcio esista attualmente al mondo. Cos'altro mancava? beh ovviamente l'ormai scontato Osanna alla Gen Z, alla loro reale forza morale e determinazione pragmatica, contrapposta agli sterili codici tutti di forma della generazione precedente (uno dei pochi sorrisi ce lo strappa Di Caprio nell'estenuante scena della parola d'ordine al telefono). È inevitabile trasferire su pellicola l'orientamento dell'autore e il suo punto di vista, ma qui l'impressione è che Anderson abbia ricevuto un assegno in bianco per caricare la storia di clichè telefonati e narrazioni da propagandetta spicciola. Che poi si potrebbe intendere - a livello di bersaglio di satira - il rovescio di un Mars Attacks, per dire, laddove però il film di Tim Burton si dispiega come un prodotto programmaticamente satirico per famiglie, mentre questo di Anderson rimane per larghi tratti in un limbo ambiguo: troppo poco sferzante per risultare una parodia, troppo grottesco per esser preso sul serio.

Si trasecola davanti a paragoni balzani della critica specializzata con film come Dottor Stranamore, tirando in causa l'irraggiungibile Kubrick, che col suo nichilismo totale non ha mai proteso per una fazione o una vulgata peraltro, preferendo piuttosto demolire la razza umana senza distinzioni e senza far prigionieri. Ed è noto quanto il cinismo sia una componente fondamentale della satira per non scadere nel sermone moraleggiante. È invece il tranello in cui inciampa proprio Anderson, accodandosi al trend ottimista della stampa dell'ultimo biennio, con la celebrazione senza confini della rampante generazione Z, quella che (per citare il recente titolo di una testata) "sta facendo cadere governi in tutto il mondo", neanche fosse una nidata di Zarathustra in embrione nel finale di 2001 Odissea nello Spazio. Difficilmente spiegabile quindi, in questo senso, il perchè un'intransigente adepta di quella generazione come Willa (Chase Infiniti), provi del tutto improvvisamente sincera commozione, senza che ce ne venga spiegata la sua maturazione, davanti alla lettera di una madre che l'ha rinnegata dal momento della sua nascita, che è scappata delegando tutti gli oneri familiari al partner (a cui non ha mai rivelato di non essere il padre biologico) e che ha tradito la rivoluzione cantando tutti i compagni alla polizia federale. Come del resto non viene spiegata o motivata l'ossessione di Sean Penn nel venir accettato nella loggia massonica del Christmas Adventure Club: un dettaglio così centrale nella narrazione avrebbe meritato ben altro approfondimento. Altre redazioni hanno apprezzato il "pericoloso" film di Anderson per il suo "coraggio" in questo momento storico, riportandomi vagamente alla mente il personaggio di Stepan Trofimovic nei Demoni dostoevskijani e quella sua bislacca paranoia auto-indotta che tanto ricorda oggi la martirizzazione autoreferenziale (nei fatti inesistente) di tutta una schiera di "piccoli Gramsci" presenti in ogni fazione esistente. Eh già, suoniamocela e cantiamocela da soli che è meglio.
