Glazyhaze - Sonic

A giudicare dai feedback e dall'incedere grungey a metà strada tra DIIV e Swervedriver di What a Feeling verrebbe da giurare che i Glazyhaze abbiano dismesso, almeno per il momento, gli svenimenti melodici di Just Fade Away e quell'immaginario pastelloso da potenziale band preferita di Wes Anderson. La prova del sophomore album è storicamente sempre la più difficile per una band: dimostrare un'evoluzione evitando di battere sentieri fin troppo conosciuti, a patto però di conservare la stessa urgenza espressiva del debutto e, come se non bastasse, schivare con maestria l'ineluttabile "eh però non sono più quelli di prima..". Il quartetto veneto riesce nell'impresa e forse va anche oltre, arricchendo la propria tavolozza di sfumature neanche troppo intuibili partendo dal loro primo album, ancora legato a quei deliqui chitarristici alla Swallow.
Se gli agganci coi loro esordi sono da rintracciare nei passaggi più radiosi delle prime tracce, l'impressione è che in Sonic la band abbia voluto dare una sterzata decisa al proprio sound, precocemente consolidatosi nella scena dreamy/gaze dello Stivale, in direzione post-punk. Qui fanno la loro comparsa, in ordine: claustrofobici cori maschili con patina alla Ian Curtis (Breath, Nirvana) , un giro ipnotico di basso che fa il verso a Disorder (Sonic), un'atmosfera vagamente orientaleggiante (Stardust) come solo i Cure avrebbero saputo concepire, un pezzo che trasuda Seventeen Seconds sin dall'intro (Not Tonight) e una chiusura nel chill più deflagrante (Warmth), degna dei migliori Pale Saints. La scelta è senza soluzione di continuità, ma l'identità della band rimane chiara senza sfilacciarsi tra le varie transizioni emotive.
La domanda è legittima: questa deviazione stilistica, che scampa lo sterile revavilismo amalgamandosi (bene) con la sensibilità candy del primo album, ha senso oggi? Le due anime, che dividono in due sezioni anche il disco secondo la concezione della band, rispondono alla stessa disillusione presente oggi davanti a uno scenario, sociale o geopolitico che sia, più fosco e incerto che mai negli ultimi decenni, una dimensione in cui "il nirvana potrebbe essere dietro la prossima porta, ma forse non è il nostro caso". Le dieci tracce che compongono la setlist sono per lo più love stories, declinate di volta in volta in chiave nostalgica, di promessa o di assenza, ma complessivamente filtrate attraverso un tale senso di precarietà da assumere un significato generazionale. Sonic è in definitiva un lavoro importante, sia come effettivo decollo di una band di cui si poteva già fiutare il potenziale, sia come affresco di un determinato momento storico. Magari non esplicito come Guernica, ma forse evocativo come il Viandante di Friedrich.