Ha senso oggi parlare di dreampop?

Chiariamolo subito: shoegaze e dreampop non sono la stessa cosa. O almeno così era in origine. Il glow up del movimento, nelle sue declinazioni (queste sì, forse un po' sterili) di zoomergaze/grungegaze/nu-gaze, ha indotto tutti (compreso il sottoscritto) a ripiegare spesso su quel salvagente di epiteti generici ma evocativi come etereo/sognante/impalpabile, evitando di inquadrare una materia pur decisamente scivolosa. Sì, so bene che stiamo discutendo fondamentalmente di scorciatoie mentali e che tutto questo rischia di condurre solo a filosofie salottiere, ma credo anche nella responsabilità degli scriventi di costruire un linguaggio comune per non generare fraintendimenti. Potremmo semplificarla così, ricreando una sorta di genealogia: i due filoni hanno degli antenati comuni (Sunday Morning dei Velvet Underground e i Beach Boys di Pet Sounds); entrambi hanno zii e fratelli maggiori (lo shoegaze Sonic Youth e Dinosaur Jr; il dreampop Siouxsie e Cocteau Twins); hanno persino degli intenti comuni, ma mentre il gaze li realizza per mezzo di muri noise, il dream li ricerca attraverso un'estetica più rarefatta.
Detto ciò, è vero che a trent'anni di distanza il contesto è cambiato (non più rockcentrico) e le componenti hanno finito inevitabilmente per mescolarsi in un Long Island dai sapori indistinguibili, ma questa premessa era necessaria per esporvi una mia tesi: il grosso della partita è stata vinta oggi, almeno in Italia, dal dreampop. Gironzolando sulla playlist Rock Italia di Spotify si nota infatti una presenza considerevole di composizioni dreamy uscite solo nell'ultimo mese (!). Qui parliamo di alcune di queste cercando di analizzare il fenomeno.

1 | Lilies on Mars, Stefano Guzzetti - Flow
La texture iniziale di chitarre e il basso ondulante ricordano Nothing Natural dei Lush, prima di sfociare nella melodiosità un po' obliqua dei cori alla She Found Now dei My Bloody Valentine. Probabilmente è proprio dalla lezione di m b v (2013) che il duo, qui assieme al compositore Stefano Guzzetti, attinge per ricreare questo pattern di frastuono soffuso, come soffocato da un otturatore. È un rumore compresso, addomesticato, senza finalità stordenti, tutto votato al chill. La voce, dispersa tra le maree del mix, non ha quasi più valore comunicativo, impiegata alla stregua di un pad del Roland Juno. Su Reddit un buontempone ha ironizzato dicendo che questo genere non è altro che vaporwave per boomer. Cazzate ovviamente, era la prima volta che ascoltava Loveless e poi si sa che sul web non morirà mai la moda di atteggiarsi a edgy, a costo di negare anche la realtà più palese, e cioè che è vaporwave per la Gen X.

2 | Glazyhaze - Forgive Me
Sono sempre stato affascinato dalle band che cercano di evolvere lo stile, espandere il proprio background e uscire dalla comfort zone. Ed è infatti con molta curiosità che attendo il nuovo album del quartetto veneto in uscita a marzo, perchè dopo un lavoro molto coerente come Just Fade Away, grondante svenimenti melodici ed estasi indolenzite alla Swallow, la band ha rilasciato nel novembre scorso il singolo What a Feeling, dimostrando che la loro seraficità può tranquillamente viaggiare col piede più rasente l'acceleratore del noise e i Diiv allo stereo. Forgive Me ripiega nel tracciato dreampop caro alla band, salvo accendersi improvvisamente in strabordanti muri di distorsioni. La vena celestiale è sempre quella, i mantra anestetici anche. La formula è indiscutibilmente catchy, ma il primo singolo estratto dimostra che i Glazyhaze dispongono di una gamma di colori ben più vasta di quanto si possa immaginare in partenza. Wait and see.

3 | Heaven or Las Vegas - Veronica
Per un secondo stavo diventando tutto ciò che ho sempre ripudiato: il copypaster che etichetta un gruppo a seconda del nome più o meno citazionistico. Ok che il nome dice sempre qualcosa, però immaginatevi un critico dall'ascolto superficiale liquidare gli Slowdive nel '91 con una frase tipo "bel gruppo, ma suonano come una tribute di Siouxsie". Anche perchè qui i Cocteau mi sembra c'entrino quanto Ornella Vanoni a un concerto dei Dinosaur Jr (e non che sia un male, anzi). Veronica è probabilmente il momento più low key di un album che palesa germi post-punk, distorsioni garbagiane e un po' di Marlene Kuntz del periodo Ricoveri Virtuali, per intenderci (boh, datemi pure del folle). Qui il layering è meno pervasivo, lascia più spazio al cantato, riverberato ma preminente (ndr. voto in più per il songwriting evocativo, terreno sempre scivoloso in italiano). Meno dreamy vibes, più immagini b&w che passano in slow motion davanti allo schermo.

4 | Go Hawaii - Santa Barbara
Oggi il termine più in voga è bedroom pop, ma i tromboni più tranchant vecchia scuola bollerebbero questo genere come easy listening, precludendone qualsiasi pretesa di qualità artistica superiore. I suddetti megalomani, cresciuti evidentemente troppo a pane e Pino Scotto, non saprebbero riconoscere il valore catartico di un EP come Mangy. Vibes jangle e lo-fi che mi hanno ricordato le produzioni californiane di Henry Nowhere, musica di nostalgica spensieratezza, di rilassatezza bittersweet, musica che puoi ascoltare in camera o in ufficio trasportandoti automaticamente su una spiaggia della West Coast o a surfare su un isolotto sperdutto (del resto presumo che il gioco di parole nel loro nome debba suonare proprio come un'esortazione a questo tipo di teletrasporto mentale). La produzione del duo veneto non sfigurerebbe affatto con le più popolari uscite attuali d'oltreoceano, tutt'altro.

5 | Vanarin - Lost
L'indole è decisamente più psych e l'elettronica la gioca inevitabilmente da padrona, ma le componenti hypnagogic e yacht del quartetto anglo-italico riconducono allo stesso fine, ossia uno stato di coscienza estatico e sognante, per così dire, etereo (ci stavo ricascando di nuovo, dannazione). What We Said è il terzo album della band, in bilico tra Tame Impala e MGMT, pur provenendo da un'imprinting funky e battistiano, come lasciava intendere il primo Overnight. Anche qui con Lost siamo davanti al definitivo tappeto di sottofondo per un viaggio mentale, se la meta con i Go Hawaii era un litorale lontano, qui è l'iperuranio.