I cani - post-mortem

La verità è che emotivamente siamo rimasti bloccati lì, soprattutto chi ha potuto viverlo da universitario quel biennio 2015-16, quell'indie-era che per qualche stagione ci ha convinto di vivere anche qui in Italia una wave, musicale e di costume, codificata e tutta nostra. Una parabola fugace, ma in cui si possono distinguere bene nascita-crescita-morte, inventori-promotori-epigoni. Ad esempio, se Calcutta può definirsi l'ambasciatore, l'icona che ha amplificato la voce dell'itpop e che ha spianato la strada a una generazione di seguaci (che hanno irrimediabilmente cambiato la rotta e il senso originale), i Thegiornalisti e lo scisma del loro Space Cowboy rappresentano un po' la pietra tombale del filone. E i cani? Beh, a loro un po' va, e non per iperbole, la coccarda di pionieri della scena. Niccolò Contessa dal 2011 cercava di dar voce all'hipsteria italiana, ossia quella fetta di mercato essenzialmente estranea alla bling culture dei trappettini e ai cool guys che ascoltavano Coldplay e Beyoncé, e che non era mai appartenuta a nessuna nicchia-setta punkabbestia, pur condividendone solo in apparenza l'agenda dell'igiene personale (ma per un epitome del tema si dovrà attendere il deus ex machina di Latina). La formula musicale de I cani era essenziale, di respiro naïf, ma tremendamente efficace: synth pop con suoni da cameretta, amori affranti a suon di buzz words giornalistiche, voce distaccata e disillusa di chi ha già elaborato lo shock e racconta la sua esperienza a mo’ di storytelling su una panchina della stazione. Nel 2016 la consacrazione con Aurora, poi il rumoroso ritiro dalle scene per 9 anni. Del resto, senza andare a ripescare Mina o qualche cit. da Ecce Bombo, è notorio come la divinizzazione di una scena necessiti di un'eclissi.

I cani, visti così alla distanza, sembrano avere in tutto e per tutto i connotati del fenomeno generazionale e questo post-mortem un po' ne dà conferma. Innanziututto una scelta di stile: se riproporre a distanza di un decennio le spoglie composizioni a base di synth lo-fi sarebbe risultata per forza di cose un'operazione nostalgia, come comunicare agli aficionados senza auto-parodiarsi o alla gen Z? Forse meglio adeguarsi un po' alle tendenze (lo dice Contessa stesso: "da oggi voglio fare come si deve fare e fare come fanno tutti, essere come sono tutti"). Il convitato di pietra del disco, a mio avviso, sono i Post-Nebbia coi loro ronzii psych pop. Ok certo, meno impeto lisergico, ma un analogo tono fumettistico nelle atmosfere. Tematicamente parlando, invece, l'album è una smorfia alla civiltà del copypasta mediatico, a quella parte del mondo in cui "vivere è fascista, nascere è reato, vivere è capitalista, nascere è peccato”, quella sterile, e nel profondo ridicola, società che si trastulla nell'auto-colpevolizzazione, convinta detentrice del corretto stile di vita (che guarda caso non coincide mai con quello del vicino). Una società a cui, insomma, talvolta è preferibile conformarsi passivamente pur di non finire sul patibolo.

Una società da cui è difficile cavare vibes positive per la scrittura. Ci sarebbe da chiedere a Contessa a questo punto cosa l'abbia spinto in questi 9 anni a rimettersi, carta e penna, dietro una tastiera. In parte un suggerimento ce lo dà: "un lampo di luce, un colpo di tosse, un anno di noia, tutto quello che ci vuole per una canzone". Non che l'album suoni male o fuori dal tempo, ma anzi, da questo tempo sembra averci cavato proprio il peggio (e questo forse è imputabile solo in parte al nostro). Poi per carità, i Cani si possono ritrovare nell'attitudine, negli hook facili (si citano Kafka, Mann e il Donbas) o nel repêchage cantautoriale (Felice sembra scimmiottare persino l'ultimo Battiato). È il sequel a distanza di anni, la fotografia post-mortem di una generazione. Non sono i Cani ad esser cambiati: è cambiato il mondo, siamo cambiati noi. L'abbiamo accettato? Chissà. Quello che so è che io e qualche amico, aperto Spotify, ci siamo fiondati sul disco sperando di risentirci, almeno per un momento, pariolini di 18 anni.