Idiosincrasie dell'industria musicale

Evito di esordire in medias res con domande enfatiche tipo: “Oh, ma hai visto la copertina dell’ultimo album di Sabrina Carpenter?!”, presupponendo i livelli testosteronici, giurassici o sciovinisti del nostro pubblico. Quindi facciamo un passo indietro: chi è Sabrina Carpenter? Potrei sintetizzare così, senza copiare cinque paragrafi da Wikipedia: la Carpenter è l’ennesima ex star Disney attorno a cui, causa diversi anni di oblio (il tempo avanza anche per i classe ’99), il musicbiz ha confezionato il personaggio di pin up girl, ammiccante e ipersessualizzata. Ultima replica in serie di una longeva industria di Lolite made in USA, il “prodotto Carpenter” già da tempo fa discutere il pubblico internazionale: il suo target di riferimento è quasi totalmente under 16, ma le sue performances sono pregne di doppisensi maliziosi (in realtà neanche minimamente velati), allusioni erotiche e coreografie kamasutriche. Tutto ciò, unito a un immaginario da baby doll consapevole del suo essere oggetto del male gaze, non può che aver suscitato, legittimamente, le apprensioni di genitori puritani pur disposti ad accompagnare le proprie figlie ai suoi concerti.
Sotto l’occhio del ciclone è finita invece negli ultimi giorni la copertina del suo nuovo album, in uscita il 29 agosto, dal titolo “Man’s Best Friend” (letteralmente “il miglior amico dell’uomo”). L’espressione, che quasi di riflesso rinvia al fido quadrupede, non a caso trova riscontro nella controfaccia dell’album dove appare il collare di un Retrivier con tanto di targhetta. Sempre per il gioco di rimandi, riesce facile interpretare (anche se, diciamocelo, senza titolo e controfacciata era ugualmente abbastanza immediata l'associazione) la cover del disco: Sabrina in tacchi a spillo e abiti succinti, a gattoni sul pavimento, tenuta per i capelli da uomo in suit di cui non vediamo il volto e a cui lei tocca una gamba. Difficile essere più espliciti e lasciare margine di dubbio: è l’apoteosi del desiderio patriarcale nell’immaginario collettivo. La donna totalmente succube e mansueta in un contesto domestico, pur esaltata nella sensualità delle vesti da boudoir, che accetta di buon grado la violenza di un compagno senza volto, ridotto alla sola metà inferiore, la vera protagonista degli atti “impositivi”, l'emisfero che sbilancia la millenaria gerarchia tra i due generi.

Si sono spesi fiumi di inchiostro nella canonizzazione di ex reduci dell’accademia Disney a icone nel pantheon della terza ondata femminista, ma rimane il dubbio su quale sia effettivamente l’obbiettivo di talune operazioni di marketing. L’accusa spesso mossa dai sostenitori verso haters e contestatori è: “vi dà fastidio che una donna parli di sesso liberamente”. Partendo dal presupposto che il bigottismo filisteo del sottoscritto rappresenta un ostacolo invalicabile nell’accettazione anche di uomini che ne parlino esplicitamente nella loro musica o che esaltino le proprie qualità erotiche (ammesso che sia possibile una dinamica del genere e che la “seduzione visiva” possa essere una facoltà anche ad appannaggio maschile), resta il fatto che non è il trattare del sesso in sé a costituire una “questione”, ma la dinamica a esso sottesa (i ruoli assegnati, le aspettative sociali e i giochi di potere che ne derivano) che determina la qualità della comunicazione. Si potrà dire, certo, che questo genere di iconoclastia sia tutta una costruzione di un gioco di ruolo in cui l'apparire subordinata è solo parte di una narrazione più complessa pronta (al 100% delle probabilità) a esser sottilmente decostruita nei testi del disco in uscita. Senza dubbio, ma tutto ciò si scontra con il target di riferimento, tendenzialmente troppo giovane per afferrare e troppo idolatra per non imitare alla lettera.

Dopo questa ventina di righe da Catone o vecchio trombone, ripenso ai miei 15 anni, al film di Oliver Stone sui Doors, ai Velvet Underground, a Burzum, a Kurt Cobain. Tutti archetipi potenzialmente pericolosi (anche sui meno imberbi) senza la corretta contestualizzazione o un sistema critico immunitario che facesse da filtro. Eccola la chiave di volta, il perno del senso: la contestualizzazione, questa sconosciuta, probabilmente il vero spauracchio di questi tempi. Ciò che manca a fenomeni dello showbiz come Sabrina Carpenter è la contestualizzazione, ancor più urgentemente sentita in un ambito come il pop mainstream, capace di riscuotere in media il quintuplo delle attenzioni rispetto a qualsiasi "nicchia" da me citata in precedenza. L'unico argine a una lettura testuale o superficiale dei contenuti di irrimediabile sbocco a derive svilenti della società. Ma non ci si può aspettare di certo questo dall'industria musicale che non ha coltivato, nè ora nè mai, semi di coscienza, nutrendosi tutt'al più di sterili scandali (per di più ripetuti uguali nel tempo, ma rivenduti di volta in volta come più audaci di quelli precedenti) sacrificati sull'altare del profitto e della paccottiglia neo-lib. E così rieccoci di nuovo a un altro giro, a un'altra controversia, a un altro dibattito e a un altro un ping pong di articoli sui social, ma stavolta, credetemi, fa realmente scalpore, non come quello di ieri, quello della settimana scorsa o quello ancora prima.