La Valle dei Sorrisi è il primo vero elevated horror italiano

Ci sono i tetti a spiovente come in Hereditary, un paesaggio alpino che ricorda Phenomena, si somatizza il disagio emotivo sottoforma di prurito come nel Settimo Continente di Haneke e il fotogramma finale fa persino il verso al recente Nosferatu di Eggers. Complessivamente però non si contano i riferimenti ai campioni d'incassi con cui Ari Aster ha codificato il moderno elevated horror. Citazionismi a parte, l'ultimo film di Paolo Strippoli regge il banco di prova e rappresenta, neanche troppo metaforicamente, un contesto nazionale - italiano - di repressione. Annullamento emotivo, soffocamento dell'individualità: un affresco in cui la generazione dei padri preferisce anestetizzare il dolore piuttosto che affrontarlo (e superarlo) e, quasi di conseguenza, quella dei figli si ritrova ingabbiata nelle strozzature sociali imposte dai genitori.

Remis è il tipico paesaggio montano celebrato dai media come oasi felice in cui vivere, malgrado le condizioni di superficie lascino immaginare l'esatto contrario (una comunità piccola e claustrofobica, un clima inesorabilmente cinereo). È mera apparenza difatti, e le premesse si rivelano in definitiva gli ingredienti azzeccati per un Villaggio dei Dannati all'italiana. La minuscola comunità condivide un trauma profondo: una tragedia ferroviaria che pochi anni prima ha causato un'ecatombe nel luogo. La sciagura vive nella cittadinanza come un grande rimosso, dal momento che questa non sembra accettare, neanche nei forestieri in visita, umori diversi dall'ingiustificata allegria. Un ex campione di judo del Sud Italia spedito lì come supplente (apprezzabile nota di neorealismo) cela ugualmente un profondo shock nel suo passato. Un liceale dall'omosessualità socialmente repressa, ha misteriosi poteri taumaturgici da cui tutto il paese dipende come tossici dalla propria droga; il padre ridistribuisce le capacità sedative del figlio alla collettività alla stregua di un pusher. Il tutto legittimato da un alone di misticismo pagano, riportato dal padre, in combutta col parroco locale, sotto la rassicurante egida di Nostro Signore (letteralmente "religione: oppio dei popoli"). Le doti salvifiche del ragazzo, trasmesse attraverso abbracci (gesto tabù per eccellenza nella società post-covid) si scopriranno in realtà solo sedative: i traumi non scompaiono, vengono momentaneamente messi a tacere.

Il ragazzo-guaritore vuole sottrarsi al giogo genitoriale che lo vorrebbe perenne feticcio del fanatismo indigeno; vorrebbe venir considerato finalmente per quello che è nella sua natura umana; ricerca l'affetto del compagno di cui è invaghito ma che lo rifiuta, incapace anche quest'ultimo di esprimere il proprio disagio emotivo e la sua identità sessuale. Il professore supplente vorrebbe lasciarsi alle spalle i tormenti di un passato di cui si sente colpevole, ma anch'egli non riesce ad aprirsi e guardare una volta per tutte, vis à vis, gli scheletri nell'armadio. Un solo uomo del posto ha intuito la vera natura del fenomeno e non a caso finirà ucciso proprio dal sacerdote, eterno cane da guardia contro i Prometeo mossi dal proposito di portare la conoscenza al volgo. Il finale coreografico (forse un po' troppo tableau vivant) offre una speranza di liberazione, ma al tempo stesso sembra un po' inconsapevolmente rispondere all'imperituro dilemma berlusconiano del "sono nati prima i tossici o gli spacciatori?".

Abbiamo avuto modo di vedere in questi ultimi anni The Nest di Roberto De Feo (discreto lavoro, al netto di alcune cadute di ritmo), il dimenticabile Hai Mai Avuto Paura?, le prime due prove dello stesso Strippoli (A Classic Horror Story con De Feo e Piove), ma l'impressione è che questa Valle dei Sorrisi sia l'opera più riuscita finora del trend in Italia e quella che meglio può apparentarsi al filone internazionale già in piedi da diversi anni. Chiudendo un occhio sui debiti dal cinema d'oltreoceano, si potranno soppesare sulla bilancia alcune leziosità di troppo nel primo atto e sequenze viziate di umori che spezzano con la tensione generale (le sequenze di amicizia, a metà tra il sentimentale e il goliardico, tra il supplente e l'alunno disagiato sanno un po' di Carrie, ma non sempre si adattano al tono del film). Resta però una qualità tecnica e registica fuori dall'ordinario nel contesto cinematografico italiano di questi anni (se la giocherebbe anche con il talentuoso Brando De Sica, se quest'ultimo si cimentasse finalmente con un vero horror). Una promessa che Strippoli dovrà mantenere nel prossimo futuro per tornare a sperare - e sarebbe anche ora - nel ritorno del cinema di genere in Italia.
