Low Standards, High Fives - Everything Ends

Alcuni anni fa, un chitarrista di una post-hc emo band era solito dire: "Se tutto è rumoroso, allora nulla lo è davvero". È su questa falsariga che riesco a leggere facilmente quel misto di rabbia, dolore e introspezione (che somiglia alla vita) ed è il secondo album dei Low Standards, High Fives, pubblicato con Kosmica Dischi. La band torinese, un po' come i La Dispute e i Touchè Amorè, si inserisce in quel filone che ha fatto del post-hardcore un territorio di brillante sperimentazione, unendo all'intensità distorta tocchi melodici e liriche riflessive. Del resto, anche il titolo che dà il nome al disco è sintomatico dell'estetica splenetica a cui si andrà incontro in un'opera di questo tipo: quell'Everything Ends, rassegnato e disilluso, che sin dalla title track, tra esangui chitarre atmosferiche e robusti arpeggi di basso, sconfina nello screamo e nella romanticherie ("Tutto ciò che conta per me sei tu").

Il leitmotiv dell'album è la meditazione sulla caducità delle cose: Sink or Swim è una ballad singalong che prende in prestito la metafora di una barca dal destino già segnato e la cui salvezza è solo "far finta di crederci ancora"; Lucky è un saliscendi emotivo che butta nella mischia ritmi rutilanti e urla sfibranti, ma cede poi il passo ad arpeggi post-rock, voci sussurrate ed echi femminili, rivelando doti liriche tutt'altro che grezze per una band di questo stampo ("Questi giorni non dureranno per sempre. Se resteranno, li sprecherai comunque. Se resteranno, allora non avremo più niente da dire”). Non esistono nel disco effettivi momenti-melassa, ma le atmosfere dilatate di brani come Fortune (che si riprende col breakdown finale) e soprattutto la nebulosa Well, I wish you the best (una Murder your Memory nostrana) impongono una frenata non da poco alla setlist. Sono però solo intermezzi dell'altalena emotiva che mitigano l'anima principale del disco, esattamente nel mezzo delle staffilate chitarristiche alla Pianos become the Teeth di Somewhere too far e dei feedback lancinanti di Quiet Place (che pur non cedono alla formula start and stop della band).

Everything Ends, potremmo dire, è un catalogo di rimorsi, di pesi e non detti ormai sedimentati ("Se vuoi vivere questa vita, ti auguro il meglio, ma mi troverai da qualche parte, dall'altra parte"). Un'elegia catartica perennemente in bilico tra accessi di risentimento e una fragilità metabolizzata in intimità; un disco in questo senso significativo per il panorama italiano, ancora in parte restio culturalmente ad accettare le manifestazioni più trasparenti e crude delle proprie debolezze. Questo disco probabilmente non vi farà scendere lacrimoni, ma vi costringerà per una mezz'oretta a fare i conti con voi stessi.