Nothing Lasts Forever - All You Can Hate

Li avevamo sentiti per la prima volta lo scorso maggio quando lanciarono in anteprima un primo estratto del loro EP, Choices, ma qualcuno di voi avrà avuto probabilmente modo di vederli già live al Distorsioni Fest o in apertura a Sick Tamburo. Ad ogni modo, i romani All You Can Hate rilasciano il 17 gennaio con Kosmica Dischi la loro opera prima, Nothing Lasts Forever. Nulla è per sempre, un epitaffio officiato sin dalla copertina con uno dei più classici manifesti di caducità dell'era moderna: una farfalla che si posa sul tergicristallo di una Fiat (?). Del resto questa vocazione elegiaca sembra stare particolarmente a cuore ai quattro hated (passateci il gioco di parole, ma hanno iniziato loro con quella bio Spotify), al punto che il disco esordisce con la voce di Zendaya tratta dal suo monologo in Malcolm & Marie (il primo - al tempo chiaccheratissimo - film post-covid, diretto da Sam Levinson). La sua voce affranta e risentita trova controcanto in un trasognato arpeggio di chitarra che per qualche secondo mi ha generato il dubbio di aver sbagliato selezione mettendo un disco degli And So Your Life is Ruined. Ma a prescindere dal mio misread, quell'introduzione intima e confidenziale, i caustici ma semplici "thank you" che possono porre rimedio a qualsiasi incomunicabilità, devono essere interpretati come un effettivo prologo al disco? come una dichiarazione d'intenti? Lo capiremo stradafacendo.
Ed ecco che veniamo catapultati di forza nelle distorsioni punk di Choises, già annunciata anteprima del disco. Tra ritmiche tambureggianti, bassi e chitarre che funkeggiano, una voce crepuscolare e ghirigori di chitarra che punteggiano l'insieme, sembra già di addentrarsi nell'universo emogaze, ossia quella nicchia che in capo a band com i Pity Sex o Gleemer ha saputo stemperare il furente disagio del midwest emo con la languida mestizia dello shoegaze. Anche nell'espolosione del refrain, con le sue armonizzazioni vocali e la sua scansione più incalzante, il tono cerca di mantenersi sempre su registri piuttosto chill. Il brano, non a caso, sembrerebbe un'auto-indulgente 'ammissione di colpe', quasi un inno al proprio auto-sabotaggio:
"Tell me what you're running from, why would you rather be alone? (...) I was perfect for a while then I fell back into my old bad habits. (...) I tried to set myself some rules... but I hate to follow them"

Si passa così a quello che, a mio avviso, è il miglior momento di tutto il disco. Not gonna change the world e I don't care, così apparentemente figlie di Freaks dei Surf Curse e delle chitarre dei Cure da poter inaugurare a pieno titolo un filone italiano che potremmo fantasiosamente chiamare surfgaze. In Not gonna change the world, una sorta di Disorder nostrana, la voce si adagia su frequenze molto basse ripiegandosi su sè stessa, con piglio da post-punk revival, che ben si attaglia all'indole disillusa e indolente del testo:
"And I don't care what's going on around, I won't take a 12-hour train ride to vote since I'm not gonna change the world".
Non faccio in tempo a riprendermi, stordito ma anche piuttosto gasato dal finale noise su accordi jazzy, che il disco torna a buggerarmi nuovamente, facendomi credere di aver lasciato in riproduzione casuale e di ascoltare l'intro di Everlong dei Foo Fighters. Sono solo 5 secondi, è un hook o forse più un gioco che la band romana instaura con l'ascoltatore più passivo per introdurre il brano vero e proprio che poi parte (se soffrite però di OCD e la cosa vi ha deluso, vi segnalo qui una playlist per le persone come voi). Il pezzo è indiscutibilmente il più radiofonico del disco e, credetemi, è piuttosto difficile per lo scrivente conservare l'imparzialità del critico quando nella testa continua a frullarli a ripetizione: "I don't care, I don't care" e, consequenzialmente, i piedi continuano a tambureggiare freneticamente sul pavimento. La slackery post-adolescenziale, la voce "serenamente affranta", le chitarre quasi "piangenti", le ritmiche surf; tutto suona così retrò eppure così moderno.

Il quinto capitolo dell'EP, Everybody's Gone, è forse il momento più riflessivo del disco, una ballad slacker sul cui testo mi piace riportare l'attenzione in quanto, a suo modo, "distopico". Il brano fa riferimento a uno scenario da science fiction con intenti freudiani in cui si immagina di svegliarsi e di ritrovarsi soli nel mondo: niente più frustrazioni, niente più ansie sociali, niente più prevaricazioni, ma nessuno più in cui riconoscersi: "When everyone is gone there are no more mirrors". Un cantato dimesso, un incedere svigorito, vagamente memore degli Eels, e una riflessione più che opportuna tra le facili ruggini e le misantropie auto-indotte dell'era social.
Si chiude infine con Fairy Tales che ci riporta nel mood emogaze delle prime tracce e che probabilmente rappresenta l'azzeccata chiusura del cerchio con quel "That all joys will fade away, but it takes time to heal the pain and in the end we’ll be ok, but that the end is not today", che compendia correttamente l'amara constatazione che dà il nome all'EP. Meritevole anche la coda finale che sembra aggiungere gli Smashing Pumpkins alla lista dei riferimenti personali della band.
Pro: l'EP sa farsi apprezzare nel suo essere coinvolgente e per il sapiente dosaggio degli umori, riuscendo nell'impresa di conferire all'intero disco un tono afflitto e a tratti rassegnato, senza mai diventare lamentoso o tormentato. Brani come Not gonna change the world e soprattutto I don't care hanno le carte in regola per diventare bangers a pieno titolo. Si apprezzano particolarmente alcune soluzioni nelle code, nell'evidente ricerca di idee interessanti con cui chiudere i pezzi.
Contro: l'equilibrio fra le diverse ed eterogenee sonorità (volendo anche agée e non facili per il mercato italiano) è ben riuscito e bilanciato, riuscendo a risultare fresco e straordinariamente orecchiabile. Forse un distacco da certe soluzioni, che inevitabilmente rimandano a una via in Italia già a suo modo congestionata come quella del revival midwest emo (mi riferisco ad esempio a scelte come le armonizzazioni vocali di Choises o il chorus di Fairy Tales), potrebbe giovare a una band che ha già fatto intuire di avere delle idee chiare sull'identità che vuole costruire.