Peripheral Vision compie 10 anni e i Turnover annunciano un tour celebrativo

Questa band della Virginia, ancora poco nota al mercato italiano, un decennio fa presentava il suo secondo album a La Tenda di Modena e si apprestava a smuovere le acque dell’emo-indie pop. Peripheral Vision è stato un disco importante per gli anni ’10 al pari di Hyperview dei Title Fight, non a caso entrambi rilasciati dalla Run for Cover e prodotti da Will Yip. I meriti del produttore americano nello sviluppo del nu-gaze odierno, in particolare, sono ormai riconosciuti: essenzialmente Yip, fiutando la risacca shoegaze nella scena alternative dopo anni di oblio, intuì prima di altri che classici del genere come Loveless o Nowhere iniziavano a mostrare i segni del tempo a livello di produzione (qui per approfondimento). Ed ecco che, sviluppando l’enfasi sulle percussioni a discapito delle texture di chitarra, dal suo studio uscivano instant classic del nuovo filone come Tired of Tomorrow e The Great Dismal (Nothing), As you Please (Citizen), Feel Something (Movements) o Sway (Whirr), esperimenti che influenzeranno pesantemente le coordinate stilistiche del genere. Il lavoro su band come Turnover, Title Fight e Pity Sex, invece, si può riassumere nel target di dreamo: avvicinare l’emo-hardcore ai suoni del dreampop e alle atmosfere dilatate dello shoegaze.
Gli stessi Turnover erano reduci da Magnolia, loro debutto nel 2013, una sorta di Pablo Honey poco rappresentativo di quella che sarebbe stata la loro evoluzione e infatti oggi praticamente rinnegato dalla band. Intriso di emo e di derive pop-punk, Magnolia non lasciava ancora trasparire le doti di songwriting di Austin Getz e soci. I quattro, al tempo in età di college, già si cimentavano in alcuni brani che sarebbero poi usciti nel loro sophomore album, sebbene ancora in odore di revival midwest emo (video allegato qui in alto), a dimostrazione di quanto possa rivelarsi determinante l’incontro con un produttore di indirizzi distanti, ma non antitetici. E poi cos’è successo? Cambiano i riferimenti. Austin scopre i Beach House, i Diiv e gli Slowdive; fanno ingresso nel suo set Jazzmaster, riverberoni ambient, Roland cristallini e chorus abbacinanti; il cantato dismette i panni da adolescente incazzato col mondo e assume i connotati melliflui delle band di fine ’80; le ritmiche reprimono la frenesia e accompagnano arpeggi alla Cure. Peripheral Vision è stata una delle tappe importanti per i nostalgici del genere: è uno di quei dischi che in ambiente americano ha segnato un ritorno a sonorità old-fashioned, incanalandole in strutture nettamente più radio friendly, e contribuendo quindi alla rivalorizzazione di band da un po’ lasciate sullo scaffale.
Lasciando adesso il campo ai miei gusti personali (che valgono quanto la testimonianza di un'apparizione mistica a Flavia Vento), l'album fu per me quasi una folgorazione: il suono così gracile eppure caldo delle chitarre riportava a una dimensione di innocenza e vitalità, i tappeti di riverbero erano il pulviscolo nella luce che inondava il salone nella casa d'infanzia, i sussurri di Hello Euphoria avevano un che di angelico ed extra-terreno, gli arpeggi di Dizzy on the Comedown trasmettevano la fragilità instabile della post-adolescenza. Musica che parlava nella sua a-verbalità. Quasi l'intera setlist dell'album pare sia dedicata all'ex fidanzata di Austin, che poi è la stessa ritratta nella copertina, filtrata da un vetro ormai prossimo a rompersi su tinte autunnali: se è una metafora per la separazione che cercava, difficilmente sarebbe potuto essere più esplicito. Il rinnovato stile di vita di Austin, poi sposatosi e votatosi a veganesimo e spiritualismo new age, sembra aver orientato i lavori successivi della band su altre sponde, accantonando il temperamento emo-punk palesatosi fino a questo disco. La parabola è quasi da giro della morte: dal mix di jangle e surf di Good Nature sono arrivati persino allo Style Council-revival di Altogether, sconfinando infine nella neo-psichedelia di Myself in the Way di due anni fa. Sempre più levigando le loro asperità alla ricerca di una sofisticatezza via via più affettata.

Malgrado gli entusiasmi non siano stati unanimemente condivisi (a distanza di 10 anni Vice lo liquida ancora come nient'altro che pop-punk coi riverberi), il valore seminale di questo album nella scena indie rock inizia a diventare un fattore sdoganato che si può ritrovare in lavori come Somersault (Beach Fossils), Light We Made (Balance & Composure), Stay Inside (Elder Brother) o The Days We Had (Day Wave). La band ha da poco annunciato per il decennale dell'album un tour celebrativo che toccherà 37 città degli Stati Uniti e terminerà il 13 settembre a Londra. Commemorazione di un periodo importante della loro carriera, sì, ma probabilmente anche un indizio di dietrofront, del resto le ultime due uscite discografiche non hanno incontrato esattamente le aspettative della propria fanbase. Ciononostante, molte date sono già sold-out, mentre da noi mancano dal marzo 2020, quando suonarono al Circolo Ohibò di Milano. Speriamo di non doverli aspettare ancor per molto.