Polpo Kid - Mondo Borfo

Polpettine, Polpo Kid, Empanada e Laphroaig: non è il menù di un qualche spazio autogestito zona Pigneto, ma l'approccio goliardico a una setlist, un'attitudine che già da sola può dire molto di un disco d'esordio. Mondo Borfo (anche il titolo è un apparente nosense) è una funhouse affollata di specchi deformanti che assume la tradizione, la metabolizza all'istante e la smaltisce in chiave ironica e post-moderna. Gli autori, i Polpo Kid, sono un quartetto garage milanese che gioca a decostruire l'heavy psych e il surf rock di fine '60 senza un vero e proprio approccio revivalistico o nostalgico: il loro debutto nuota in un pastiche citazionistico a base di voci riverberate in stile flower pop, trippy organi manzarekiani, ondate di chitarre twangy e suggestioni kraut. Tutto suona retrò senza essere realmente retrospettivo, è un cocktail sferzante tenuto insieme con l'impeto di una jam band e uno spirito da mariachi, ricorrendo a tutto un bazar di strumenti musicali oggi comunemente archiviabili come obsoleti (organi Gibson, bassi protagonistici, riverberi spring e synth aciduli).

Si inizia così un viaggio su insistenti ritmi motorik a bordo di una Ford Mustang tra le dune del deserto e le onde della spiaggia. Ma non lasciatevi ingannare: tanto old school sono le atmosfere, quanto contemporanei i concetti espressi. Niente di realmente elaborato, i testi sembrano più degli scazzi di corredo agli arrangiamenti: qui e lì si parla della parafilia per ChatGPT (probabilmente perchè è l'unico che ancora ti ascolta senza giudicarti), si vagheggiano scenari apocalittici in cui sopravviveranno solo le blatte e si esprime la frustrazione per un lavoro che ti toglie la vita (qui, peraltro, si manifesta anche l'inevitabile contagio passivo dell'indie italiano perchè "voglio fare cena alle 23 e mangiare un'empanada insieme a te" potrebbe tranquillamente vivere in un pezzo di Calcutta). Si sprecano i riferimenti a Dick Dale, ai The Lively Ones, ai The Sonics e a tutto un museo del garage rock che, associati a questa iconoclastia casinista, creano un immaginario da b-movie (con apici di arte kitsch come l'eins, zwei, drei urlato della title track).

Poggiandosi su un sound volutamente saturo e lo-fi, intriso di quella patina sporca che più che garage autentico si potrebbe definire bedroom, tra imperfezioni studiate e vibrazioni analogiche, la produzione si avvale del tocco finale affidato al VDSS Studio, nome di culto tra i maniaci della nuova estetica retro-futurista per la riattulizzazione delle timbriche vintage. La proposta artistica, nonostante le congenite don't give a f*** vibes, ha in realtà le sua potenzialità nel Bel Paese. Perchè se l'estetica DIY della surf era è tornata già in auge all'estero sulla scia dei dischi dei Levitation Room, non mi risulta un effettivo movimento di epigoni qui da noi. In un momento in cui l'underground italiano, quello revival-oriented, si spinge per la maggiore verso l'emo, il synthpop e l'industrial (con tutti i derivati) e la lisergia è intesa per lo più in chiave hypnagogic, una ventata di heavy primordiale, groovy e allucinogeno, non può che giovare a smuovere un po' le acque.