Raw Blue - Whirr

Fino a che punto è applicabile lo sputtanatissimo mantra warholiano “la miglior pubblicità è la cattiva pubblicità”? Il transphobic-gate si è rivelato per i Whirr peggio di una granata esplosa in mano, con la band che si è letteralmente data alla macchia dopo il 2015, liquidata senza replica dalla Run for Cover e costretta a dismettere la (oggettivamente controproducente) maschera di bad guy-band per vestire quella più sottotraccia, simil-Mina, da cospiratori discografici. Tuttavia, negli anni della cattività la band californiana si è guadagnata una divisione di nuovi ascoltatori inusitata per un gruppo (estromesso) assente dai palchi per più di un decennio e malgrado un’attività alle spalle non così lunga e folta (un fenomeno che, rimanendo in ambito gaze, si apparenta al caso Slowdive). L’eco dello scandalo non è sufficiente a spiegare l’hype generatosi attorno al rilascio del doppio singolo Muta/Blue Sugar nell’aprile del 2023 e il relativo successo commerciale dei vinili-feticcio. Occorrerà quindi forse mettere da parte per ora Warhol per provare piuttosto a dare una risposta all’eterno dilemma morettiano:
“mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”

Senza segnali di fumo, i Whirr rilasciano la mattina di Natale il loro quinto album, un regalo a distanza di cinque anni dal bellissimo precedente Feels like you. La silhouette di una ballerina in copertina sembra rievocare a suo modo la menade nel poster di Suspiria (1977), ma al posto dell’argentiana scia di sangue, qui una lunghissima ombra su campo programmaticamente blu intenso. Raw Blue quindi, inteso sia come il tono cromatico con cui Tom Cruise immaginava la Kidman fedifraga nei suoi deliri psicopatologici (nella copertina di Feels like you), sia come lo zucchero melanconico del loro ultimo singolo (2023). Quello spleen che proprio in Blue Sugar si esternava in: “I like how I feel when we’re falling”, con la sottile ambiguità di una caduta pericolosamente in bilico tra innamoramento e depressione. La produzione è affidata di nuovo a Zac Montez, già dietro al mixer nel loro precedente disco, ma coinvolto anche in Much After Feeling dei Turnover e Transmission dei Trauma Ray. Le scelte di campo risentono, sulla scia degli ultimi lavori, della collab: i suoni grezzi e monolitici di Sway lasciano (definitivamente?) il passo a una produzione cristallina con atmosfere più dilatate e persino punte di chill e psichedelia.

La namepiece dell’opening non lascia spazio a dubbi: Nick Bassett e accoliti continuano nel solco già tracciato con Muta/Blue Sugar, senza eccessive deviazioni, salvo ripiegare nel bridge più sophisti-pop della loro carriera, avvicinandosi vistosamente alle atmosfere sensuali a base di chitarre lo-fi e bassi ‘80s alla Turnover. Il dispiegamento della voce (tradizionalmente bofonchiata nei loro dischi) e l’articolazione dei testi promettevano in apparenza una centralità singolare per le band shoegaze, – notoriamente riluttanti all’intellegibilità –, ma una lettura più attenta delle lyrics mi ha dissuaso dall’illusione: al netto di una capacità evocativa fuori dal comune, i versi dei Whirr reiterano inossidabili una vaghezza oltre il relatable, in perenne (e generica) stasi tra sonno e veglia. Accettata questa regola generale, si apprezzeranno più genuinamente le chitarre ondeggianti e il gioco di pause e ripartenze nella successiva Collect Sadness, a preciso controcanto del ritornello “comes in waves without warning”. Le distorsioni più canoniche del genere e le ritmiche, quasi consanguinee ai Nothing (che al basso annoveravano proprio Bassett in formazione), proseguono senza particolari sussulti nelle successive Swing Me ed Every Day is the Same, salvo deflagrare nella più delicata e melliflua ballad dreampop Crush Tones, praticamente uno spin-off della loro Before You Head Off. Qui e nelle seguenti Days I Wanna Fade Away e Worries Bloom si affacciano fugacemente delle sequenze synth a riportarci nuovamente in quella dimensione a metà tra new age e bedroom pop. Sono le poche segnalazioni di un disco che da lì in poi va così adagiandosi piacevolmente, – ma anche con pochissimi guizzi e sorprese –, verso la coda di Enjoy Everything, quasi uno standard jazz con solo finale di tromba (Kelly O’donohue accreditata come guest). Cool jazz e shoegaze…qualcuno sarebbe pronto a gridare al miracolo, se la soluzione non fosse stata già preannunciata dalla notturna Thrill is Gone di Chet Baker, eletta dalla band ad outro dei loro concerti, live in Los Angeles compreso, presente nel 33 giri pubblicato lo scorso anno.
Pro: Forse il disco non segnerà una netta sterzata nell’evoluzione del genere (probabilmente non ne aveva neanche l’intenzione), salvo qualche accostamento melodico pop o r&b, ma il risultato finale è un ascolto piacevole e suggestivo al pari delle loro precedenti uscite, oltre a configurarsi come un’opportunità importante per rinvigorire l’attenzione attorno alla scena gaze sulla scorta del loro “mito” auto-alimentatosi.
Contro: Soluzioni collaudate e sonorità già esperite con una certa difficoltà potrebbero destare l’interesse degli ascoltatori più indifferenti al genere o aprire un varco tra le strettoie del nu-gaze. Un generale ammorbidimento potrebbe tradire le simpatie degli ascoltatori della prima ora, legati alle marce più cupe e gravose di Sway o alla solennità di alcune tracce di Distressor.