Scrivere in italiano è sempre una sfida

Scrivere in italiano è sempre una sfida

Tempo fa mi capitò di chiedermi: “mi sarebbero piaciuti allo stesso modo i Verdena se avessero scritto le loro canzoni in inglese?”. Da fan temprato la domanda ha del retorico e la risposta sarebbe con ogni probabilità affermativa, ma il punto è un altro. Perchè malgrado la formula verdeniana di anteporre il significante al significato (alias, inutile provare a trovarci un senso compiuto), la ricchezza del vocabolario italiano associata a quel tipo di sonorità conferisce a mio avviso un’attrattiva per un italofono del tutto eccezionale. La lingua nostrana, tuttavia, rappresenta spesso e volentieri un’arma a doppio taglio: far sfoggio di liriche forbite rischia talvolta di sfociare nell’ostentativo, ricorrere a un linguaggio semplice e diretto nel banale e nello stucchevole. Scrivere nella lingua di Dante, Petrarca e Albano pertanto è una continua sfida, intensificatasi ancor di più in tempi di globalizzazione accelerata. Eppure resistono nell'underground artisti che si fanno carico della crociata linguistica, vuoi per una più immediata connessione emotiva col pubblico, vuoi per una logica legata alla propria dimensione sul mercato o per una propria originalità stilistica. Misureremo la temperatura di questo fenomeno attraverso alcune delle più recenti uscite.


1 | Panta - Poeti, Vampiri & Veneri Punk

Per qualche strana connessione neurale, leggendo il titolo del secondo album dei Panta, ho pensato subito agli Amanti di Jim Jarmusch. Ed effettivamente, come i personaggi di Tom Hiddleston e della Swinton, il vampirismo del quartetto romano si manifesta in un anacronismo emotivo, una sindrome dell'età dell'oro che, con sincera estraneità a questi tempi, li porta a interrogarsi sul "come ci si senta a rimanere vivi oggi". La frattura col proprio tempo si esprime anche nella scelta di sonorità, tornate sì in auge recentemente grazie a band come Protomartyr e Fontaines DC, ma che i Panta declinano in tono ancor più old fashioned. Così, pur percependo l'ambizione nei rimandi a Obstacle I (Interpol) in Subliminale, e in un brano che potrebbe far parte di una setlist degli Editors come Finale di Stagione, a convincere maggiormente sono le tracce più morbose alla Cure, in cui la scrittura lirica sembra attagliarsi meglio al genere di riferimento: Crepuscolari è una bella dedica a Pornography; Maledettismo Moderno è un'antologia baudelairiana quasi da catalogo ("Sei il mio unico amplesso al sapore d'assensio"). Al post-punk revival si alternano anche ballad acustiche verviane, tra cui si segnalano i coretti simil-Hey Jude di Arcobaleno elettrico (la band ha registrato negli studi di Abbey Road) e la dilatazione atmosferica nei titoli di coda di In Inghilterra, Amore. La condizione 'vampiresca' manifesta un'autenticità anche credibile, ma la vena poetica è nel complesso un po' manierata e di conseguenza le stesse Veneri Punk, a cui sono dedicate quasi tutte le canzoni, rischiano di rivelarsi sfuggenti ed evanescenti.


2 | Manuel Pistacchio - Pellegrino

Ciò che colpisce particolarmente del terzo album del trio riminese Manuel Pistacchio è il repertorio retorico messo in campo da Diego Pasini, chansonnier dallo stampo malinconico assimilabile a riferimenti dell'odierno cantautorato nostrano come Lucio Corsi o Dente. Il disco è costellato di preziosismi stilistici attorno al tema acquatico o balneare: si materializza talvolta in sinestesia ("Lacrime che puzzano di bruciato") in riferimento a un passato che reclama indulgenza (Parole); diventa metafora in un panegirico-reggae per la donna amata (Onda dopo Onda); e si fa paradosso in un surf rock 60s alla The Lively Ones su un amore tormentato ("ti ho voluta ma scalavo solo montagne con un cuore di neve, ti ho lasciato solo sete"). Altri momenti del disco vagheggiano un'indole bersaniana, un richiamo che non trova la sua ragione d'essere solo nella comune provenienza geografica, quanto più in un'analoga ricerca espressiva attorno a temi intimi trattati con una leggerezza di superficie e il ricorso ad arrangiamenti estrosi che non temono di virare verso lo scanzonato. Le idee ci sono (note di merito per il sound chitarristico e il protagonismo assoluto degli arpeggi di basso), la scrittura è a tratti anche pregevole. Ciò di cui la setlist patisce maggiormente è una sorta di omogeneità 'umorale' che non determina particolari sterzate nel corso della sua durata, senza offrire momenti apicali o cambi di marcia. (Album in uscita sulle piattaforme digitali il 28 febbraio)


3 | Negative Message - ANESTHESIA

I primi 7 minuti di Anesthesia, album d'esordio dei Negative Message, trasudano heavy psych e acido. Una voce al telefono su spettrali strimpellate di chitarra ci informa che stiamo per entrare nel suo 'sottosuolo' e che "il viaggio potrebbe essere lungo" e portare "all'anestesia". Un urlo perverso chiude l'opening e ci introduce al primo girone infernale del disco. Finchè muoio è una cavalcata kyussiana, ma addomesticata, praticamente sui 'demoni in capa' ("Sono giorni che combatto con dei mostri in casa, non so neanche come, gridano il mio nome"); Lsdreams è invece il momento più stoner alla Uncle Acid & the Deadbeats. La produzione è volutamente paludosa e riuscitissima nell'intento revivalistico 70s: la voce filtrata e, non a caso, luciferina richiama una seconda volta la metafora dei 'mostri' per parlare di un viaggio lisergico e chiudersi con uno spiazzante valzer, tradizionalmente associato al maligno per il suo carico di malia e scandalo. Le tracce successive sterzano sensibilmente rispetto alla precedente piega garage, smorzando il doomy quasi esoterico che ci aveva spinto in avanti: Festa al 302 e Prenditi quello che vuoi sembrano incamerare molto, forse troppo, dall'indie italiano, per la loro attenzione melodica, per la pulizia del suono e la scrittura dall'hook immediato ("Festa al 302 pensavo di trovarci l'amore invece tu te ne stai sulle tue"). Tuttavia il disco ha un colpo di coda in chiusura, di nuovo con lo stoner di Non è Ok, ma soprattutto con la clamorosa Ballata dei Senz'Anima, uno struggente lamento su arpeggi acidi, un invito all'indifferenza come elusione alla sofferenza, la naturale risoluzione delle promesse dell'incipit: "E non mi resta che soffocare ogni pensiero che mi atterra". L'anestesia è compiuta.


4 | Lo Straniero - Mazapé

Dopo un primo giro di ascolto di questo quarto album de Lo Straniero, complice una scrittura visionaria e uno stile in bilico tra alt-rock e psichedelia electro-pop, gli epiteti si sono librati fragorosi nell'aere e ho pensato: "Sono davanti all'Oracular Spectacular italiano". Sospettoso di un abbaglio affrettato, faccio ripartire la setlist e traccia dopo traccia mi convinco sempre più che questo Mazapé sia effettivamente un'originale odissea contemporanea, un j'accuse alla società filistea e perbenista, intollerante e disfattista. Se la dimensione del viaggio si dispiega già nell'opening A mare, pur suggerendo a margine non una qualsiasi traversata quanto più proprio le rotte dei migranti, il momento più significativo del disco è a mio avviso da rintracciare nei campionamenti alla M83 dei "Fuochi per la festa del paese sulle tombe", metafora dell'indifferenza delle classi sociali più agiate verso le sofferenze dei reietti. Più diretti invece e quasi di pancia gli attacchi alle derive xenofobe nella subsonichiana Croci e all'ipocrisia di superficie della nostra società in Lady Mina. Tra arpeggi con velleità ambient nella title track e la vocazione etnica di Via Domiziana, qui corroborata persino dal ricorso al napoletano, l'album si chiude - e sublima il suo senso - con un inno all'andare controcorrente (Via Ferrarese). Mazapé coniuga sonorità fresche, ricche di umori, a tematiche attuali con una scrittura creativa e fantasiosa. Se l'arte è combinazione perfetta di forma e contenuto, come dovremmo giudicare questo disco?


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