Solaris - e alla fine della storia non c'è alcuna redenzione

C'è una categoria di dischi destinata alla rappresentazione, con la massima sincerità (o volendo crudezza), del lato più oscuro e nascosto di un'epoca. Parte dalla riviera Adriatica e scava nel subconscio di molti di noi il secondo album dei Solaris, un contentitore di nichilismo e paranoie personali, ma allo stesso tempo espressione (consapevole o inconscia fa poca differenza) dell'insofferenza di questi anni: dal ripiegamento dei massimi sistemi socio-economici alle post-verità, dalla disillusione verso le istituzioni allo psicologismo dei tempi moderni. Il disco è praticamente un concept dalle sonorità scostanti, che cerca monoliticamente di trasmettere una sola sensazione: apatica morbosità. L'incipit è già una dichiarazione d'intenti che non cede nulla alla speranza e all'illusione:
“Non c’è alcuna redenzione che non passi dalle mani insanguinate del padrone”
È un'invettiva profondamente disfattista, che qui si scaglia contro il Potere, altrove punta il dito contro le pressioni sociali (Mele) e le sue costrizioni (Ospedale), o contro le illusioni moderne (Pensile).

Nel mezzo vere e proprie confessioni senza risparmiare l'immaginario truculento per veicolare il messaggio. Sereno e Neutralità esplorano l'auto-sabotaggio e la stagnazione emotiva; Castigo è una presa di coscienza collettiva, o quantomeno tale dovrebbe essere sulla carta, (volenti o nolenti a modo nostro "piangiamo tutti per un gioco che odiamo"). Il rant pigfuck di 3 minuti in Due è un divertissement estemporaneo, ma l'apice del disco si annusa nei riffoni arabeschi di chitarra che aprono Ezikmendrak. Il titolo lovecraftiano prelude a una quasi dark parody di Uomini Soli, "dio delle voragini, abbi pietà". Un urlo munchiano su un mondo senza speranza, un Ad Arimane in chiave noise rock. L'impeto polemico, per così dire "da battaglia", era già presente nel debutto di Un Paese di Musichette mentre Fuori c'è la Morte, ma in questo sophomore prende una piega quasi leopardiana, di avvilimento esistenzialista e universale.
I Solaris sfornano un album nero, di quelli da cui non se ne esce con l'umore intatto, dai riff stentorei e le cadenze da cingolato, a metà tra hardcore e noise rock. Gli ultimi anni l'Italia ha conosciuto produzioni simili con i The Death of Anna Karina o i Buñuel, a cui i Solaris rispondono con composizioni più rigorose, meno feroci o slabbrate, talvolta anche incappando negli strapiombi doom e sludge. É così che dovrebbe suonare il disincanto?