Takk... glaciale, accessibile, anche 20 anni dopo

I Sigur Rós rappresentano un po' gli outlier di un filone, il post rock, che quasi per statuto ha sempre rifuggito il facile consenso popolare. Sarà l'eccentricità di Jónsi, sarà il connubio tra la terra natìa (l'Islanda) e la musica proposta che neanche se studiato a tavolino sarebbe riuscito così azzeccato, sarà l'imprevista popolarità dei soundtrack per Wes Anderson e Vanilla Sky o la vena spiccatamente emotiva della loro musica, fatto sta che il quartetto a inizio '2000 era già una band di culto e godeva di un'iconicità estranea a molti colleghi dello stesso sottobosco. Dopo una trafila congenitamente indipendente, infatti, nel settembre del 2005 usciva Takk..., un vero e proprio punto di svolta nella carriera dei Sigur Rós. L'esordio sotto l'egida di una major (EMI) comportava notevoli pressioni di mercato, ma rappresentava anche una sfida per la band nel raggiungimento di un punto di equilibrio tra l'esplorazione sonora astratta di () (2002) e una forma musicale più accessibile, che non sacrificasse la profondità e l'intensità emotiva che li avevano contraddistinti nel panorama post-rock.

Siamo in un periodo storico in cui il consumo musicale è ancora legato al supporto fisico e l'ascolto di un album diventa rito: si ascolta tutto, dall’inizio alla fine, e ogni ascolto è un’esperienza immersiva. Sono gli anni dei masterizzatori: i negozi pullulano di pionieristici 8X e i più scaltri stampano pure le copertine degli album con getto d’inchiostro bianco e nero. Ma il rituale dell’ascolto resta immutato.Takk... dura poco più di un'ora, un minutaggio nel 2005 ancora nella norma (versante più mainstream, ad esempio, Demon Days e Late Registration presentavano una durata simile). Il disco, oltre a consolidare definitivamente il ruolo della band islandese, iniziò a sdoganare il post-rock presso un pubblico più ampio, complice una produzione più curata, una scrittura che, pur mantenendo le strutture dilatate e l’atmosfera onirica, si fa più melodica e accessibile, e un mood più luminoso rispetto alle timbriche scure dei precedenti lavori ( lo stesso titolo, del resto, ne è sintomatico). Si torna al cantato in islandese dopo l’esperienza hopelandic di (), l’esperimento linguistico di Jónsi che estremizzava l’uso della voce come puro strumento musicale (quello a cui, un po' goliardicamente, ci si riferiva come "richiamo delle balene").

Fin dalle prime note, l’album sembra riprendere le atmosfere rarefatte del suo predecessore: l’ouverture omonima, appena due minuti di echi chitarristici e riverberi, cede il passo a Glósóli, brano costruito su una progressione ipnotica di vibrafono e chitarre, con il basso di Georg Hólm a tessere una trama in cui si insinuano archi e voci eteree. Il climax è forse debitore delle coeve progressioni orchestrali chrismartiniane di Parachutes e A Rush of Blood to the Head, all’epoca tra i riferimenti più accreditati del fenomeno alternative goes to mainstream. Ma il momento più celebre dell’album arriva con Hoppípolla (da noi divenuta tristemente nota per quell'acrobatica pagina di para-plagio sanremese nel 2010), che a distanza di vent’anni resta uno dei brani più iconici della band. Un pezzo che potrebbe essere accusato di strizzare l’occhio al pop (come infatti è successo, venendo reputato talvolta, e soprattutto qui in Italia, "scialbo e quasi natalizio"), ma che nella sua semplicità armonica e nel suo crescendo emotivo riesce ancora oggi a evocare un senso di meraviglia come pochi altri brani contemporanei. Il suo successo è amplificato da un videoclip perfettamente in sintonia con l’estetica Sigur Rós: nostalgia, innocenza, malinconia, quell'infantile saltare nelle pozzanghere a cui dovrebbe mirare un Occidente invecchiato male. La successiva Með Blónasir ne rappresenta di fatto la coda, probabilmente separata per scelte di scaletta (o per questioni radiofoniche imposte dalla label, il che non sarebbe sorprendente).

Il minimalismo pianistico che precede il crescendo orchestrale di Sæglópur, ci ripropone la formula tipica della band, vagheggiando spazi lontani, le brughiere di un'Islanda immaginaria, in cui ogni singola emozione è pura quanto lo scampanellio di un pianoforte Bontempi; uno stato di natura incontaminato da un'Europa globalizzata e frenetica, un'idillio forse mai esistito, ma che prende magicamente vita nelle composizioni della band. Svo Hljótt e Heysátan chiudono l’album con dolcezza malinconica, sottolineando l’importanza del quartetto d’archi Amiina, sodalizio confermato dal precedente (), essenziale anche qui nella tessitura sonora del disco. Rispetto ai lavori precedenti, Takk... è forse meno radicale, più aperto a un pubblico vasto, che in un quel momento storico era probabilmente pronto ad accogliere un cosmopolitismo "raffinato". Un pubblico aperto ad accettare sonorità esotiche (nordiche in questo caso) senza però in realtà allontanarsi dal formato canzone di stampo occidentale; un pubblico disposto a cedere al richiamo di un'emotività spiccata, pur senza perdere contatto razionale con la realtà (di qui il passaggio da hopelandic a islandese), alla ricerca di un'espressione estetica e sonora genuina, lontana dalle logiche del mercato (ritrovandola, per paradosso, in una band appena passata a una major). L'album in questo senso è anche una storia di contrasti e paradossi. Ad esempio, alla sua uscita non fu unanimemente apprezzato: il tradimento della sperimentalismo era pronosticabile, ma il risultato finale a molti sembrò inconcludente. A nostro avviso, invece, se () rappresentava il manifesto sperimentale, Takk... è la prova di maturità di una band che ha saputo reinventarsi mantenendo intatta la sua identità. A vent’anni di distanza, rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia comprendere l’evoluzione del post-rock e la magia sonora dei Sigur Rós.