Tramontana - Ferite

L'anomalocaris è un animale estintosi più di 500 milioni di anni fa. Era uno dei più grandi predatori della sua era e alcuni studiosi hanno dimostrato come molte ferite presenti sui fossili del paleozoico combacino con il meccanismo predatorio di questo artropode. Si parla spesso di sindrome dell'età dell'oro; i piemontesi Tramontana, invece, non rimpiangono alcuna presunta aurea aetas. Siamo tutti fossili, come quello raffigurato sulla copertina del loro secondo album, stratificazioni morte di ciò che eravamo, vittime di un connaturato stato di nostalgia senza un oggetto preciso, frustrati dalle pressioni della vita sociale e dei suoi rituali, appiattiti da una realtà stretta e ripetitiva. È un emo decisamente più ragionato e "post" quello della band: le chitarre graffiano con un certo garbo, mi verrebbe da dire quasi amichevole; l'energia del cantato è persino notevole per il genere; l'abrasività emerge qua e là, ma apparentemente con intenti per lo più deittici. Siamo davanti a un disco nelle intenzioni midwest emo, nel cuore più introspettivo ed esistenzialista, che rivendica il proprio legame con un filone ampiamente consolidato, senza risultare derivativo o pagare dazio a una scena già congestionata in Italia.

Ok certo, nella setlist regna quell'enciclopedia della paranoia da loro stessi citata e tanto cara (e adusa) al genere: si parla di monotonia e desiderio di evasione (Piani di fuga), di precarietà emotiva (1/4 d'ora) e di provincia soffocante (Non ti devi preoccupare), ma il songwriting è più ricercato, talvolta metaforico (Anomalocaris), talora disincantato, se non dissacrante ("La musica è un salvagente, ma la merda galleggia ugualmente"). I tapping a 300 all'ora alla Tiny Moving Parts sono disseminati per tutta la durata del disco e puntellano le otto tracce, facendo capolino di tanto in tanto. La setlist, tuttavia, non sconfina quasi mai, rispetto a certe tendenze odierne, nello screamo o nell'irruenza post-hc. Ferite, al contrario, si conserva su un registro mellowish e dolceamaro che fa dei chitarroni puliti, del timbro un po' tenorile alla Verme e delle frasi di taccuino da cantare in coro il proprio core business. I cambi di passo nell'Arte più assurda (un intermezzo jangle tanto inaspettato quanto geniale, al netto di un finale che riecheggia Non mi vedi dei Quercia), nelle distensioni sincopate di Mare tempesta o nei cori stile bunker di periferia di Non ti devi preoccupare rappresentano alcuni dei punti di frizione di un album che altrimenti, soprattutto nelle ultime tracce, avrebbe rischiato pericolosamente di incappare nell'effetto prevedibilità.

La chiusura melodrammatica sugli accordi trascinati di Senno di poi che si abbattono sull'ascoltatore come la pioggia in sottofondo aggiungono quel dolente umor nero che non si era ancora affacciato prima nell'opera. La produzione è secca, le lyrics scavano in scenari intimi per trasporli nell’universale, la voce a tratti giganteggia nella quasi mezz'ora di questo Ferite. Si potrebbe dire che i Tramontana siano tra i più giovani eredi di quella tradizione italiana che rimonta ai Fine Before We Came e che continua a generare schiere di epigoni. Certo, qui c'è meno avvilimento e meno rabbia di "pancia". Al contrario c'è una mestizia "presa bene", per così dire, quasi ballabile, quella quieta resa fondamentale "per superare i momenti un po' di merda e imparare l'arte più assurda, l'arte di sopravvivere".