Tre dischi e tre confessioni: il nuovo cantautorato italiano
Durante la scorsa (abitualmente deprimente, almeno per il sottoscritto) rassegna sanremese, uno come Brunori Sas aveva dichiarato: «Negli ultimi anni si era diffusa l’idea che i cantautori fossero una cosa del passato, è bello vedere che non è così». Per uno nato negli anni '90 come me, - scusate se torno sull'autoreferenzialità, ma è solo per dare un'idea -, l'unico songwriting conoscibile in presa diretta poteva esser rappresentato dalla bella stagione dei Bersani, Fabi, Gazzè, Silvestri, Consoli, Capossella e compagnia cantante. Raffinati parolieri, colti senza essere pesanti, impegnati pur volendo divertire allo stesso tempo, sempre con quella fragilità dolceamara di fondo. Oggi si può forse dire pacificamente che la scuola di inizio '2000 ha perso con diversi goal di scarto il confronto coi nostri "songfathers" degli anni '70, quelli ancora esposti alla stregua di santini da qualche mitomane della poesia ribelle. Un confronto con la generazione che invece pensò bene di contaminarsi con l'indie, invece, almeno personalmente e forse un po' per superficialità snobista, non l'ho mai preso troppo sul serio. Oggi in Italia però vive tutto un sottobosco di autori che contaminano penna e strumenti con un fiume di influenze che giungono un po' dappertutto, e di cui non è sempre così semplice ricostruire la traiettoria. Qui parliamo di tre dischi usciti nelle scorse settimane.

Prima uscita in full lenght per il cantautore parmigiano Nicolò Verti, in arte LupoFiumeLeggenda, tra gli ultimi epigoni nella genealogia itpop 3.0, ossia quella corrente che ha saputo integrare pacificamente retro-pop nostalgico al sampling estivo e radiofonico della viralità contemporanea, pur tenendosi a debita distanza dalle derive urban della trap. Abracadabra è una formula rituale: un incantesimo che promette felicità, ma che svanisce appena provi a toccarlo. È un album spiccatamente generazionale, rivolto in particolare alla nidiata millenial di inizio anni '90, quella della performance sociale e dello snobismo hipster, che "non mette più la maglia dei FASK, però le manca pogare nei club" e che "non mette più la maglia di Kurt da quando ha visto che la metti tu". I protagonisti sono trentenni sospesi tra sogni e precarietà, malinconici e ironici, relitti di un falso mito dell'età dell'oro. Il sound è in buona sostanza il pop uptempo, un po' cantautorale e un po' delicatamente elettronico, che da una decina d'anni tiene banco presso le nostre sponde. Niente che possa genuinamente stupire coi suoi richiami agli anni '80 e l'ombra lunga, ancora tangibile, di Leo Pari, a cui Verti ha legato parte dei suoi primi passi. La si sente soprattutto nella bella Così Importante, coi sui ritornelli coinvolgenti e synth retrò che potrebbero tranquillamente fare capolino in uno spot pubblicitario, e nella leggera e soffusa Curaro+++. Contagiabile la ballabilità coldplayana di Ella, un po' meno convincenti le tentazioni vaschiane in Torino. Uno di quei dischi che ti fa dire, appunto, "che fregatura che è la nostalgia, ma serve a combattere con l'apatia".

Si tratta invece di un sophomore in sordina dopo 19 luglio 1944 per Cassio, moniker del cantautore livornese Simone Brondi. Esce emblematicamente, come tiene lui stesso a sottolineare nella sua "lettera di scuse", il giorno dei morti. Parlavamo appunto di una lettera, una confessione in cui l'artista ha rivelato il bisogno di prendere le distanze dalle scene e dalla sua stessa opera, cancellando tutta la promozione del disco e i live calendarizzati. "La verità è che far uscire questo disco non è più una gioia per me. È solo un merdoso sfogo. Uno sfogo di pianto. La verità è che queste canzoni non mi fanno più bene". Ho dovuto ascoltare più di una volta il lavoro per entrare in questa ferita e capirla appieno. Perchè quel "Famiglia" del titolo sottende un senso a tratti persino ironico, se non di contrappunto tragico. Il disco non rimanda mai a luoghi d'affetto, ma a tutto un sistema di legami malati, colpevoli ed ereditati, da cui il protagonista sembra non riuscire ancora a liberarsi. Non si salva quasi nessuno qui, dalla città natale (Livorno), all'ex tossica (Cadavere), fino all'infanzia perduta (Mamma; La Persona Peggiore del Mondo) e la mediocrità quotidiana (Pijama). Stilisticamente il disco è l'anello di congiunzione tra l'emocore e la canzone retrò italiana, talvolta ricercata anche con intenti quasi parodistici in salsa sanremese (Cadavere, Ragno), ma davanti a una tale urgenza espressiva, qualsiasi discorso tecnico inizia a disperdere pezzi della sua impellenza. Famiglia è uno di quei dischi che puoi capire e apprezzare solo se riesci a "percepirlo".

Gianvito Gallicchio, in arte semplicemente Gallicchio, è un songwriter pugliese alla prova del primo EP. Analisi Uno, che sin dal titolo si presenta come un modulo universitario, è letteralmente un esame di coscienza. Anche in questo caso, come nel disco di Nicolò Verti, siamo direttamente a colloquio con la generazione millenial, quella che cresciuta con Daniel Radcliffe su una Nimbus, con Paso Adelante in tv e i dischi di Cristina Donà, oggi vittima di una routine un po' svuotata, pur conservando una percezione ancora ironica, se non caustica, dei propri "fallimenti", come il "ritrovarsi su Wikipedia sulla pagina del ghepardo o a chiedersi chi fosse il regista del Gattopardo". La poetica del nostro sa essere tanto malinconica e delicata quanto tagliente e lucidamente beffarda nel racconto della quotidianità in tutte le sue piccole goffagini, simile per certi versi - e non solo stilisticamente - alla scrittura di un Brunori Sas. Le parole si inseriscono su uno sfondo musicale trainato da chitarre acustiche che sa coniugare il pop e il cantautorato classico di ascendenza bersaniana con quel retrogusto folk a tinte mediterranee. Del resto anche qui, come nei dischi di Brunori, compaiono quasi gli stessi centri (Potenza, Cosenza): spazi marginali, lontani dai centri, dove l’identità si costruisce nella modestia. Un biglietto da visita già maturo che presenta un paroliere dalla fisionomia già a fuoco e che si inserisce in una tradizione italiana imperitura e di lunga data.