Tre EP e una mini-Odissea

Sempre restando in tema maremagnum, oggi vi proponiamo 3 EP di fresca uscita (inutile vi sforziate di trovare un filo conduttore tra questi, non c'è) e un album di sole quattro tracce ma della modesta durata di 41 minuti. L'intelaiatura dell'articolo è da architettura bizantina: gli altri short tape di cui parliamo, infatti, sono sobri solo nell'estensione. Cliccate play e contemplatene i mosaici.
1 | Rivera - Trasparente

Un decennio fa non avrei creduto si arrivasse a tanto, ma in Italia stiamo respirando una wave che potremmo definire anzitempo post-itpop. Il solco tracciato dai pamphlet dell'indie malinconico-decadentista (Mainstream, Punk, Fuoricampo, Spazio) vive oggi in una corrente che di quella scuola ha conservato l'estetica normcore, l'immaginario della provincia e lo slang della post-adolescenza, riversando il tutto in un indie pop se possibile ancora più easy listening che tende a rinverdire anche il target generazionale. Il duo veneziano dei Rivera, al loro secondo EP, rispetta questo trend imbastendo un disco semplice e genuino, ma pericolosamente orecchiabile. Giocano con l'elettro-funk alla Leo Pari e la musica leggera italiana anni '90, sfornando un potenziale tormentone traccia dopo traccia (senza neanche troppa difficoltà riesco a immaginare il refrain di Prete nello spot di un Cornetto Algida). Il leitmotiv sono i temi cari al filone: il pendolarismo esistenziale, gli hangover sentimentali, una quotidianità nostalgica. I Rivera li affrontano però con una scanzonatezza presa bene non allineata alla solennità che un decennio fa veniva tributata a quei temi da certo indie, con vertici che a pensarci oggi forse fanno anche sorridere (pensiamo a come si prendeva sul serio un singolo che semplicemente parlava dello spremere limonate come metafora di monotonia). Non piacerà probabilmente a chi si aspetta un'attitudine più sofisticamente cantautoriale. Lo consiglio invece a chi deve affrontare interminabili code in tangenziale per andare al mare nei prossimi mesi, per allegerire l'animo e ricordarsi che “anche fuori al Louvre o San Francisco c’è puzza di p*scio”.
2 | Not a Talker - Colour Fade

Ne abbiamo parlato qualche giorno fa nella Top 10 di maggio e l'uscita del primo EP dei perugini Not a Talker lo conferma: imboccare la corsia del time-traveling è forse la miglior forma di autodifesa da un contemporaneità abietta. Anche perchè, diciamocelo, la darkwave attuale non ha perso nulla dello smalto futuristico che sfoggiava negli anni '80 e continua a godere di un respiro internazionale mai domo grazie a band come i Drab Majesty, House of Harm o i Molchat Doma. Rispetto soprattutto a questi ultimi, il nuovo Colour Fade suona sicuramente meno industrial e dark, ricercando di contraltare un sound più celestiale e giulivo, probabilmente più adatto a un ascolto radiofonico esteso rispetto alle oceaniche condivisioni su TikTok di pezzi ossessivi come Судно. Tube Smell, come già detto, è l'anthem trionfale, il potenziale soundtrack per il finale di Breakfast Club; Lost Space è forse l'esperimento più depechemodiano (richiama un po' The Things you Said) e Blurry Lines sembra Ian Curtis riuscito a superare i suoi problemi. Il disco è costellato di smarrimenti notturni, contatti perduti e rapporti confusi, quella sensazione di spaesamento lucido ("I have some feelings, like the smell is weird, but it’s great") che si attaglia perfettamente alla classica dimensione da purgatorio urbano di questa tradizione sonora. Ovviamente l'originalità non sta nella forma, siamo davanti a una di quelle proposte artistiche per un pubblico prettamente retromaniaco. E non che in Italia e in Europa il segmento di mercato sia così congestionato, anche perchè spesso e volentieri queste frequenze prendono una piega synthpop e post-industrial a discapito della palette analogica, ancora per la maggior in questo Colour Fade.
3 | Neoprimitivi - Orgia Mistero

Dopo i primi 30 ipnotici secondi di arpeggio ci si potrebbe aspettare la voce di Lou Reed che subentra a cantare Heroin. E invece un coro, un Padre Nostro collettivo, l'invocazione a una spontaneità ispirazionale che sappia dar vita a questa stessa musica. Anche qui un climax: l'estasi mistica viene rotta, ma in luogo dei paranoici incubi velvetiani, una trionfale cavalcata kraut alla NEU!. Si potrebbe dire anche di più su questi 21 minuti (!!) di opening, ma basti questo a spiegare quanto i Neoprimitivi vogliano intenzionalmente tirarsi fuori dalle logiche del mercato musicale odierno. Qualcuno potrebbe parlare di azzardi strategici nella società dello skip facile; un intuito visionario potrebbe, al contrario, addirittura scorgere nel richiamo revivalistico alla psichedelia di oltre un cinquantennio fa (e non solo nell'estetica visivo-musicale) una mossa commercialmente spendibile che sappia capitalizzare la nomea di istant cult. Avevamo affrontato già in un nostro contributo questo fenomeno di scala internazionale e il sottoscritto stesso aveva auspicato una band all'altezza del trend anche qui in Italia. L'esordio della band romana mi ripaga dell'attesa con una setlist che riesce ad abbinare quella patina vintage con una creatività fuori dal comune (l'intro de La Teiera Nera sembra fare il verso a Caravan e Artificiali prende persino spunti baggy dai Kasabian). Che poi, in fin dei conti, è probabilmente l'ultimo capitolo del disco l'effettivo materiale di difficile collocazione commerciale: 10 minuti puramente esperienziali di orrore, fluttuazioni solitarie nello spazio oscuro e orrendamente silenzioso. Si possono ritrovare le atmosfere dell'adolescenza se avete una certa età, potete astrarvi nei più irreali emisferi della mente, potete anche rimanerci un po' confusi se non avete dimestichezza con le sonorità. Solo una cosa non è possibile fare davanti a questo disco: rimanerci indifferenti.
4 | Mondomaru - Vol. 1

Sembra quasi la chitarra spazializzata di Stephen Carpenter in Be Quiet and Drive ad introdurci in questo sussidiario del post-hardcore che è l'EP d'esordio del collettivo Mondomaru. C'è un po' tutto il decalogo delle sfumature confluite in quel calderone debordante, certamente espressivo ma sfuggente, che fa capo al genere: rabbia, cinismo, disillusione, SOS emotivi. Proviamo allora prima a dire cosa non c'è a livello stilistico nel disco: lo scream è sempre piuttosto irregimentato anche nelle sfuriate più tormentose, le corde sferragliano senza mai cedere a florilegi twinkly e la setlist si guarda bene dall'incappare in momenti-melassa, salvaguardando il rollercoaster emotivo. Il sound è fortemente chitarristico, senza diventare mai particolarmente ingombrante: il riferimento è a lavori come Shed dei Title Fight o forse anche ad atmosfere più dilatate come Keep You dei Pianos Become the Teeth. Per raccontare la scaletta servirebbero due manifesti esistenzialisti: Buonanno (che già intitolarlo con riferimento implicito al martire leghista è tutto un programma) e Paura. Il grido disperato di un'umanità gettata in un mondo che spettacolarizza la sofferenza (altrui), filtrata dalla distanza, come conforto consolatorio, ridotta ai grotteschi scontri-teatrini tra Parenzo e Orsini. Un'umanità profondamente sola e impaurita che cerca senso nei legami e nei ricordi, trovando solo vuoto e domande. Un mondo che si imbelletta con gli status quo per nascondere la violenza e l'egoismo. È solo giunti all'epilogo di questo Vol. 1 che si intendono le stoccate in apparenza bislacche come "Questi non sono i fiordi, siamo in Svezia con gli orsi, siamo in Svezia contorti". Se le scelte formali non sbalordiscono in relazioni a certe sonorità d'oltreoceano (che comunque da noi faticano ancora ricevere il riscontro che meriterebbero; penso in particolare a band come Noverte o Low Standards, High Fives), a cogliere nel segno è l'urgenza espressiva, l'intima sincerità e il potere catartico infusi in una scaletta così compressa.