Vanarin - Hazy Days

Nell'ultimo anno e mezzo il mercato discografico ha offerto Stung! dei Pond, III Times di Gum/Ambrose Kenny Smith e Chorus dei Midlife, tutti dischi della costa australiana, tutti uniti da un comune trendsetter: i Tame Impala. L'onda lunga di questa psych-pop renaissance ha investito anche l'Europa. In Italia, ad esempio, queste sonorità si possono ritrovare tangenzialmente negli album dei Dumbo Gets Mad o nelle recenti uscite di Marco Castello, ma sarebbe un'omissione imperdonabile non citare l'ultimo Pista Nera dei Post Nebbia, peraltro distribuito da Dischi Sotterranei (a cui appartiene lo stesso Hazy Days, a riprova di una precisa linea editoriale di sound). Individuare le cause scatenanti di un fenomeno di massa è un'operazione sempre arbitraria: che questa rifioritura sia stata dettata da un feticismo vintage per il sound analogico? o da quella patina screziata che ben si attaglia all'estetica retrò morbosamente in voga tra i social media? o, più in profondità, da un'urgenza chill e meditativa in una società frenetica come la nostra? forse, molto più banalmente, si tratta di una semplice segmentazione psicografica del mercato (alias, i bambini degli anni '90 sono cresciuti, hanno potere d'acquisto e possono comprare nostalgia). Chi può dirlo con certezza, del resto. Fatto sta che l'ultimo disco dei Vanarin trabocca di queste suggestioni.

Lo psych pop del gruppo anglo-bergamasco è tuttavia sempre stato più stratificato. Il loro album di debutto, Overnight (2018), si ornava di suggestioni battistiane che lo avvicinavano a quel filone sofisticato e molto white definito yacht rock, ma è con il successivo Treading Water (2022) che diedero una sterzata decisa verso quella psichedelia cremosa che oggi, a 3 anni di distanza, ci conduce a Hazy Days. Aprendo le foto promozionali del disco mi sono chiesto se ci fossero effettivamente dei riferimenti voluti alla copertina di Ummagumma e mi è piaciuto autoconvincermi di ciò, attribuendo un senso più ampio all'acido spazializzato di certe sonorità del disco. I giorni nebulosi della band si aprono non a caso con l'invocazione di Hey Listen (ma è un'altra reference ai Pink Floyd? ok, sto impazzendo) a non pensare al proprio orticello e a prestare attenzione alle nuove generazioni, "a pavimentare quella strada, anche se ti ammali, anche se la tua vita fa schifo, anche se stai invecchiando" ed è troppo tardi per te. Vibes neo-soul si insinunano invece in What We Said, un rimuginio su un (non meglio definito) scambio di parole, verosimilmente, con un'ex: il mood dovrebbe essere programmaticamente contrito o sofferto, ma l'andamento è a dir poco easygoing con un finale persino lounge jazz che commemora "quei tristi giorni assolati". Nell'album ci sono due momenti particolarmente debitori degli MGMT di Congratulations: uno è My Circle, che credo una sorta di intimazione ironica a non intromettersi nella bolla prossemica altrui; l'altro è A fly on the wall, una metafora faunistica di ribellione contro chi esercita il potere e il controllo, l'ozio come resistenza armata alla società moderna e le sue convenzioni sociali.

L'intro a base di hammond di Falling Under suggerisce, quasi a mo' di pensiero intrusivo, I'll take care of you di Bobby "Blue" Bland, ma le allucinazioni digitali che seguono deviano verso un electro funk sul rammarico per il tempo perso inseguendo il dark side di qualcuno che ci ha "ingabbiato e trascinato giù". Gli apici trip si raggiungono però con I don't know e, soprattutto, Lost: tanto groovy la prima, quanto eterea e distesa la seconda. Che poi, in definitiva, restituiscono un po' il fine ultimo dell'album: canzoni da ascoltare prestando attenzione solo "al tempo, al posto e al clima stando insieme", oppure nella solitudine della propria stanza, per rompere "il silenzio che riempie il pomeriggio". Il sound proposto dalla band è straordinariamente internazionale, al punto da sentirmi quasi stranito nel definirla una band italiana. Non è un caso che i quattro stiano riscuotendo già da tempo l'attenzione di canali come la BBC e di icone mondiali accanto alle quali si sono trovati ad esibirsi (Thurstone Moore, Public Image Ltd, Battles). L'album è breve, scorre senza quasi accorgersene, ma la vivacità e la creatività espresse nei suoi 23 minuti ci offre uno spunto su come poter uscire da questi "giorni nebulosi", anche da una prospettiva discografica.